di Dino Greco

Di fronte al tracollo dell'economia “reale” (che significa: aziende in disarmo, disoccupazione in caduta libera, crollo dei redditi popolari e dei consumi essenziali, fame, povertà e disperazione) Monti ci offre oggi una stupefacente affermazione che recita testualmente così: “Il rigore ha aggravato la crisi, ma era necessario per risanare”. Ma cosa pensava Monti di poter risanare se il taglio di ogni forma di spesa pubblica potenzialmente destinata ad alimentare la ripresa ha messo in ginocchio la produzione, se il blocco della contrattazione ha abbattuto il valore dei salari, se gli importi della cassa integrazione e le retribuzioni con cui si paga il lavoro precario sembrano mance per adolescenti, se la riforma del mercato del lavoro pretesa da Elsa Fornero

ha cercato il solo risultato di indebolire i lavoratori, i loro diritti fondamentali, le tutele per ammortizzare gli effetti della disoccupazione involontaria che una legislazione pur deficitaria metteva a loro disposizione.

Cosa poteva mai sortire di positivo lo sbaraccamento violento delle pensioni di anzianità, con quel gravame di sei anni di lavoro in più imposti a coloro che sulle proprie spalle ne avevano già più di trentacinque, creando un ulteriore fuoco di sbarramento al lavoro dei giovani, un vero e proprio tappo che preclude per un'intera stagione l'avviamento al lavoro dei giovani. E su quali risorse Monti pensava di poter contare, se come un esperto slalomista ha scupolosamente evitato di assumere tutte le misure che avrebbero portato nelle casse dello stato i capitali necessari per promuovere un nuovo corso dell'economia: non una tassa patrimoniale; non un accordo col governo svizzero per tassare i 150 miliardi di euro esportati dagli strateghi dell'evasione nei forzieri delle banche di quel paese; non l'apposizione di un tetto ai vergognosi emolumenti e alle stratosferiche pensioni dei grand commis di stato, non una riforma dell'imposizione fiscale che riequilibrasse strutturalmente il prelievo, ripristinando la progressività dell'imposta in vigore negli anni'70 del secolo scorso; non una severissima legge contro la corruzione nella pubblica amministrazione che costa, ogni anno, 60 miliardi, in un paese che sconta un evasione fiscale che vale il 18% del prodotto nazionale lordo; non un taglio – questo sì, secco! - di spese militari talmente ingenti da apparire quelle di uno stato ingaggiato in una strategia guerrafondaia in ogni luogo del pianeta. E non una sola idea degna di questo nome in materia di politica economica capace, per esempio, di trasformare la Cassa Depositi e Prestiti in una banca pubblica che abbia per missione quella di sostenere un progetto di reinfrastrutturazione primaria, di bonifica dell'assetto idrogeologico dissestato da decenni di uso selvaggio del territorio e, ancora, una strategia organica di messa in sicurezza degli edifici nelle aree ad alto rischio sismico, con un annesso piano occupazionale che potrebbe creare centinaia di migliai di posti di lavoro.

Niente di tutto questo è stato neppure pensato: nessuna guida della mano pubblica e, per converso, tutti proni a servire la cosiddetta “mano invisibile”, quella di un mercato asservito alla speculazione e ai poteri forti che posseggono – appunto – il controllo di questo governo, l'anima dei tecnocrati messi a presidio degli interessi del finanz-capitalismo.

Ebbene, su queste sabbie mobili si avvia ora un surreale confronto sulla crescita fra governo e tramortitissimi sindacati, con il ministro Passera subito a chiarire che la volontà ci sarebbe, ma sono i denari che mancano... E con Monti, di rincalzo, a dire che “la Grecia sta facendo meglio di noi”. La Grecia, appunto, il cui popolo viene ridotto, giorno dopo giorno, ad una massa questuante di mendicanti, spremuti fino al midollo per consentire ai banchieri e agli speculatori di mungere ogni residua risorsa di quel paese.

Eppure dovrebbe essere chiaro che anche le misure anti-spread faticosamente varate dalla Banca centrale europea non serviranno a nulla se il paese si avvita in una spirale recessiva, se interi settori produttivi e il loro indotto cessano l'attività o delocalizzano, se migliaia di esercizi commerciali chiudono, se la disoccupazione dilaga senza freni, se il taglieggiamento di ogni branca del welfare mette alla frusta e riduce in povertà milioni di persone.

Da questo vicolo cieco, da questo pantano bisogna uscire. E lo si può fare solo a condizione di rovesciare come un guanto il paradigma culturale egemone che una battente (e largamente incontratata) promozione pubbliciataria spaccia come la sola ricetta praticabile.

A quanti sono convinti che un'altra strada sia possibile non è concesso traccheggiare nel limbo impotente delle chiacchiere.

Serve invece costruire – in un confronto pubblico con sindacati non embedded , movimenti, intellettuali, soggettività politica diffusa – un concreto progetto di governo, cioè una vera alternativa, sorretto da una radicale idea di cambiamento. Un progetto capace di ispirare e sostenere la più ampia mobilitazione sociale e l'aggregazione politica che ne invera le istanze, fuori dalle insopportabili alchimie della politica politicante, sempre più estranea alla vita reale dei lavoratori e dei cittadini di questo paese.

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