di Costantino Cossu
Dietro un muro, separati dal mondo da un blocco di cemento per dire che il mondo così com'è fa schifo, è ingiusto, va cambiato. Dal 12 novembre gli operai in mobilità della Rockwool (una multinazionale danese che opera sul mercato mondiale dell'isolamento termo acustico con prodotti per l'edilizia) sono asserragliati nella galleria Villamarina della vecchia miniera abbandonata di Monteponi, nella zona di Iglesias, Sardegna sud occidentale. Chiedono con forza la ricollocazione promessa un anno fa, quando il gruppo danese ha chiuso il proprio stabilimento in Sardegna, con un accordo rimasto finora lettera morta.
Lo scorso venerdì , dopo un'assemblea convocata al termine di un vertice che si è svolto nel palazzo della Regione Sardegna, gli operai che presidiano il cunicolo hanno deciso di andare oltre: si sono murati all'interno innalzando due barriere, costruite con blocchetti di cemento, davanti ai due cancelli d'ingresso della miniera. La tensione è alta: «Murare gli ingressi vuol dire che se non si fa l'accordo da questa galleria non si esce vivi - dice uno di loro, Gianni Medda - Il segnale è molto chiaro: non c'è più tempo da perdere». «La politica deve rispettare la dignità delle persone che sono lì dentro - aggiunge Salvatore Corriga, delegato della Rsu Cgil - C'è un accordo che chiediamo venga rispettato. Vent'anni fa abbiamo lasciato le miniere con una promessa che non è stata mantenuta. Nel nostro caso è prevista la stabilizzazione nelle controllate della Regione Sardegna».
Nella tarda serata di venerdì, alla fine di un incontro con l'assessore regionale all'industria, Alessandra Zedda, la giunta di centro destra che amministra l'isola ha presentato una sua proposta: stabilizzazione degli operai, ma con contratti a tempo determinato, all'interno dell'Ati - Infras, una società pubblica gestita dalla Regione. Obiettivo, i lavori di bonifica nelle aree minerarie dismesse. Una proposta che non convince: gli operai, infatti, avevano dato ai sindacati chiare indicazioni per essere ricollocati, a tempo indeterminato, alla Carbosulcis. Occupazione della miniera, quindi, confermata. La decisione è stata presa ieri mattina nel corso di un'assemblea in cui gli operai hanno dato mandato ai rappresentanti sindacali territoriali e alla Rsu di avviare una trattativa con la Regione.
Ma anche in molte altre fabbriche sarde è un Natale di lotta. Nelle voci raccolte ieri dalle agenzie di stampa, il riflesso di una situazione drammatica. Renato Tocco da venticinque anni lavora nello stabilimento Alcoa di Portovesme. In fabbrica ci è entrato venticinquenne. «Io sono colatore in fonderia - racconta - per me è una tristezza vedere la fabbrica spenta. Il silenzio degli impianti è quasi una tortura. L'altro giorno ho fatto un giro nei reparti, mi è venuto un colpo al cuore, tutto spento, un silenzio tombale, e io ero abitato a vedere billette, anodi e impianti in funzione». Il suo pensiero va anche a quelli più sfortunati di lui, senza l'ombrello della cassa integrazione: «Bisogna fare un accordo quadro per chi lavorava nelle imprese d'appalto, ma soprattutto bisogna che ci sia una prospettiva».
Bruno Usai, quarantanove anni, in fabbrica ci è entrato ventiquattro anni fa. Delegato sindacale della Rsu Cgil, ha vissuto tutte le vertenze. «Primo sciopero dopo un mese - racconta - poi tutto il resto». Oggi la fase più nera, con la fabbrica ferma. «È il momento più triste - dice - Speriamo solo che si trovi al più presto la soluzione. Non è pensabile che per andare avanti ci si debba far aiutare dai genitori ».
Manolo Mureddu ha trentacinque anni, è un operaio degli appalti e fa parte della Rsu. È uno dei lavoratori che, in prima fila, partecipa alle diverse proteste. «La situazione è veramente difficile - spiega - anche perché questa incertezza e questa mancanza di prospettive alla fine si ripercuotono su tutto. Questo sarà un Natale tristissimo. L'unica speranza è che si chiuda anche per noi l'accordo sugli ammortizzatori sociali». Roberto Forresu, segretario della Fiom e dipendente di una delle imprese d'appalto, guarda oltre i rimedi immediati: «Più che gli ammortizzatori sociali ciò che preoccupa è la mancanza di futuro. Chiediamo il lavoro per chi l'ha perso, ma anche una soluzione complessiva della vertenza Sardegna».
Carla Usai, diciotto anni , è al quinto anno di ragioneria e fa parte del comitato «I figli della crisi». Figlia di Bruno, operaio simbolo delle proteste Alcoa, vive in prima persona gli effetti della crisi e sin dal primo momento ha aderito alla mobilitazione lanciata dai giovani del Sulcis. «Dal 23 dicembre al 2 gennaio saremo sotto il palazzo del consiglio regionale e pianteremo lì le nostre tende - dice Carla - Vogliamo dare un segnale forte con un presidio permanente durante tutte le festività».
da il manifesto