di Samir Hassan

Nuovo round del match (prevedibilmente destinato a durare a lungo) Cameron-Correa sulla sorte di Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks ricercato da Svezia e Stati uniti, a cui l'Ecuador ha concesso giovedì scorso asilo diplomatico nella sua ambasciata di Londra e a cui il governo britannico nega il salvacondotto per lasciare il paese. Mercoledì nel Salón de los banquetos del palazzo presidenziale il presidente della repubblica Rafael Correa ha fatto il punto della situazione davanti a una sessantina di giornalisti ecuadoriani e stranieri. Parole chiare e nette. «Negoziazione?L'Ecuador non negozia i diritti fondamentali di una persona.

Piuttosto si deve parlare di dialogo. La libertà e le garanzie per Assange non sono una merce. Noi siamo aperti alla mediazione diplomatica, a patto del ritiro delle minacce inglesi. Assange, per noi, può essere interrogato dalla giustizia svedese, ma solo dopo aver avuto la certezza che questo non significhi la successiva estradizione negli Usa».
Quello di Correa era solo l'inizio. «Il Foreign Office ci accusa di "tirare la corda", dimenticando le minacce del blitz nella nostra sede diplomatica a Londra e dimenticando quello che gli inglesi hanno insegnato al mondo con secoli di politiche coloniali. Siamo stanchi della doppia morale e stanchi di essere bacchettati da chi ha colonizzato, sfruttato, ucciso e ridotto a schiavitù. Non ci vengano a parlare di democrazia e diritti umani». Poi, dopo la domanda capziosa di un inviato della tv svedese, è toccato alla diplomazia e al sistema giudiziario dI Stoccolma: «Nessuna interferenza. Assange doveva essere interrogato e non giudicato e questa funzione preliminare poteva essere tranquillamente svolta nella nostra ambasciata in terra inglese. Il resto mi sembra una forzatura politica. L'Ecuador non deve chiedere il permesso a nessuno nel decidere la strategia della sua politica estera. Con tutto il rispetto per la Svezia, il problema è l'assenza di garanzie per Assange. Senza contare tre elementi essenziali. Primo, le accuse mosse in Svezia ad Assange non erano tali da chiedere la sua estradizione tanto in Ecuador come nel 95% delle democrazie occidentali; secondo, estradare una persona che non è in stato di accusa ma deve solo essere interrogata non è ammesso nell'ordinamento ecuadoriano; terzo, non va dimenticato che Assange sarebbe un cittadino straniero in Svezia e l'ordinamento svedese prescrive che uno straniero in attesa di essere interrogato, a differenza di un cittadino svedese, deve finire in prigione. Per noi e per il diritto latino-americano, questo è inammissibile».
Poi Correa si è soffermato sull'atteggiamento ambiguo della diplomazia Usa. La scorsa settimana il Dipartimento di Stato dichiarava di non voler interferire in una crisi diplomatica «triangolare», ma il Washington Post di martedì scriveva il contrario: il Congresso Usa sta meditando una riduzione drastica del trattamento economico privilegiado concesso a determinati prodotti di alcuni paesi andini al momento di entrare negli Stati uniti, «un accordo che vale 400mila posti di lavoro e un terzo delle esportazioni dell'Ecuador», precisava il giornale. «Devono vergognarsi - ha detto Correa-. L'Ecuador non si fa intimidire, non siamo un paese che vende la sua sovranità». Correa ha chiuso le due ore di botta e risposta con l'auspicio che la riunione di oggi a Washington fra i ministri degli esteri dei 34 paesi membri dell'Osa, l'Organizzazione degli stati americani, «possa dare un altro forte segnale di unità dei paesi della nostra regione. Abbiamo bisogno di una presa di posizione forte contro minacce che violano la Convenzione di Vienna e la Carta dell'Onu. L'appoggio di Alba e Unasur è un inizio prezioso e quello dell'Osa può significare molto», vista la presenza degli Usa. In ogni caso siamo coscienti che si sta consolidando un nuovo mondo multipolare, al cui interno l'integrazione del Cono sud occupa una posizione di preminenza. Speriamo sia l'inizio della costruzione della Patria Grande».

 

da il manifesto

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