di Dmitrij Palagi
Tante lacrime. I bambini che muoiono. Molta preoccupazione ed amarezza. Finito il telegiornale si sceglie poi il programma per la prima serata. Cosa stia accadendo a Gaza viene raramente analizzato e approfondito sui principali canali di comunicazione italiani. La cosa interessante sono i giudizi che circolano tra i pochi che discutono di Palestina ed Israele a scuola, nei bar, nei luoghi di lavoro. Su un punto molti paiono concordare, a prescindere da chi simpatizza per Tel Aviv e chi critica il governo sionista: Hamas è uno dei principali nemici di Israele, fa parte dell’asse del male insieme a Siria e Iran, tra gli altri. Questa è una delle diverse idee errate che si dissolverebbero senza grossa difficoltà, se non fosse per la disinformazione con cui si mescolano.
Ad ottobre Netanyahu aveva annunciato l’intenzione di andare alle elezioni anticipate, forse per non perdere consensi, date le difficoltà che ha dovuto affrontare per il bilancio da far approvare alla Knesset. Uno dei primi commenti che ha seguito questa notizia appare drammaticamente comico, rileggendolo oggi, a più di un mese di distanza. «Una certa preoccupazione è stata espressa a tarda sera dal negoziatore palestinese Saeb Erekat. ”Le elezioni anticipate sono una questione interna israeliana – ha detto – Ma noi speriamo che la campagna elettorale non si trasformi in una corsa all’ampliamento delle colonie … e dell’assedio israeliano contro il nostro popolo a Gaza» (grr.rai.it, 10/10/2012).
La vicinanza tra Piombo Fuso e le elezioni del 2009, così come quella tra Pillar of Defence e le elezioni del 2013, è un dato di fatto, non un’illazione. «Comunque vadano i negoziati Israele incasserà un successo almeno parziale, spendibile da Netanyahu nella campagna elettorale in vista delle elezioni del 22 gennaio» (Gianandrea Gaiani il Sole 24 Ore, 20/11/2012). Non è difficile leggere analisi che insistono su questo collegamento logico. «Ad annunciare la guerra è qualcosa di altro. Come 4 anni fa: calcoli politici. Che, da fronti opposti, uniscono i falchi israeliani con il composito fronte radicale palestinese, all’interno del quale è in atto, e non da oggi, uno scontro per la leadership giocato a colpi di razzi (su Israele) e di resa dei conti a Gaza» (Umberto De Giovannangeli, Limes 15/11/2012).
Che i bombardamenti su Gaza siano utili alla destra israeliana non è difficile da supporre e credere. Giravano voci di un possibile ritorno, per il centrosinistra israeliano, di Olmert (già primo ministro). Oggi è certo che non si candiderà, mentre circolano sondaggi in cui il 70% degli israeliani si dichiara contrario alla tregua con Hamas (Gil Hoffman, The Jerusalem post, 22/11/2012).
«L’organizzazione israeliana di difesa dei diritti umani B’Tselem fa il conto dei palestinesi e degli israeliani uccisi a Gaza dal 19 gennaio 2009 al 30 settembre 2012 (Fatalities after operation “Cast Lead”): 271 palestinesi (di cui 30 minorenni) contro 4 israeliani. Le cifre parlano da sole …» (Alain Gresh, il manifesto 21/11/2012, traduzione di Elvira Panaccione). La sproporzione tra i morti delle due parti non impedisce ad Hamas di rivendicare come successo l’esito dei conflitti con Israele, come dimostrano «le raffiche esplose in aria in segno di felicità dai miliziani delle Brigate al-Qassam e i proclami di vittoria diffusi attraverso gli altoparlanti delle moschee» (Michele Giorgio, Nena News, 22/11/2012). Non è complicato comprendere gli interessi elettorali delle due fazioni che si scontrano sulla pelle dei civili della striscia di Gaza. Quello che riesce difficile far passare a livello di consapevolezza diffusa è la problematizzazione dei reali rapporti tra mondo arabo e mondo occidentale (a cui si ascrive Tel Aviv). Che l’11 settembre sia una pagina della storia archiviata non è dato solo dalla rielezione di Obama: il nuovo governo libico dimostra quanto il Corano sia tornato ad essere uno strumento utile agli interessi statunitensi, rispetto alle teorie che nel 2002 mettevano in guardia dall’imminente scontro tra civiltà.
«Alla base del rapporto Fratelli [Musulmani]-?amas c’è la presenza dell’organizzazione egiziana in Palestina, risalente agli anni Trenta dello scorso secolo. Con la guerra del 1948 tale presenza si fece più sensibile grazie all’arrivo di volontari dall’Egitto e dalla Giordania». Anni fa si sottolineava l’importanza di non dimenticare «il desiderio di ?amas di dominare l’opinione pubblica palestinese a partire dalla sua visione ideologica secondo cui la Palestina è in primo luogo un waqf (un bene di manomorta) islamico» (‘Imad Gad, Limes n°5,2007, traduzione di Marco Hamam). Nessuno nega il rapporto tra le due organizzazioni politiche. Senza difficoltà è possibile rintracciare articoli e servizi incentrati sul ruolo dell’Egitto in questa fase del conflitto israelo-palestinese. Tra i motivi che avrebbero spinto Netanyahu al conflitto ci sarebbe proprio la volontà di testare il nuovo governo egiziano di Mohamed Morsi (Seuman Milne, The Guardian, 20/11/2012, la traduzione cliccando qui). Tanto interesse rispetto al “paese delle Piramidi” è evidente: in Egitto governano, da non molto, i Fratelli Musulmani.
Semplificando ecco un breve schema logico che mostra incongruenze. I principali nemici di Israele, declamati, sono il governo dell’Iran e Hamas. L’Iran ha tra i pochi alleati il governo della Siria. «Il rapporto privilegiato tra Hamas e Siria, alleati di vecchia data, è venuto meno nei mesi scorsi quando il leader palestinese Khaled Meshal ha lasciato il Paese e negato il proprio sostegno al regime di Bashar Al-Assad» (NenaNews, 07/11/2012). I Fratelli Musulmani, all’opposizione contro Gheddafi anche nella guerra civile libica, non sono in prima linea nella difesa della Siria, anzi. L’immagine dell’asse del male araba appare poco nitida, soprattutto se ci si concentra sui rapporti tra Egitto e mondo occidentale. «Quando si dice il caso: il Fondo monetario ha deciso di concedere all’Egitto un prestito di 4,8 miliardi di dollari per ridare vita all’economia. [...] L’aiuto del Fondo monetario non è il solo che l’Egitto sta trattando. L’insieme dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo ha promesso un finanziamento da 18 miliardi. [...] L’ultimo G-8 ha ribadito la volontà di trovare altri 20 miliardi di dollari per sostenere le economie egiziana e tunisina. La Bers, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, intende finanziare progetti nella regione per altri 3,5 miliardi di euro. Infine gli Stati Uniti. Durante la campagna elettorale Mitt Romney aveva minacciato di tagliare gli aiuti all’Egitto: sia il miliardo e mezzo annuale alle forze armate che i nuovi progetti pubblici e privati previsti dall’amministrazione Obama. Ora, soprattutto dopo il ruolo del Governo egiziano nella crisi di Gaza, è difficile che gli Stati Uniti rinuncino a partecipare» (il Sole 24 Ore, 21/11/2012).
Se esiste (ed esiste) un rapporto organico tra Fratelli Musulmani e Hamas è chiaro che questa area politica non possa essere al tempo stesso nemico e alleato di Israele e degli Stati Uniti.
Il governo di Israele ha lanciato l’offensiva con l’omicidio mirato di un dirigente di Hamas.«Ahmed Jabari era un subappaltatore, incaricato di mantenere la sicurezza di Israele a Gaza. Questa definizione suonerà senza dubbio assurda a chiunque in queste ore abbia sentito descrivere Jabari come un “arciterrorista”, “il capo dello staff del terrore” o “il nostro Bin Laden” . Ma questa è stata la realtà degli ultimi cinque anni e mezzo nella striscia di Gaza. [...] Il messaggio è stato semplice e chiaro: se fallisci, sei morto. O, come piace dire al Ministro della Difesa Ehud Barak, “nel Medio Oriente non c’è una seconda possibilità per i deboli» (Aluf Benn, Haaretz 14/11/2012).
Dei palestinesi nessun paese si è mai occupato realmente, escluso Israele. La stessa Palestina non è mai stata uno stato sovrano. Colonia ottomana e britannica ha visto la propria identità formarsi nel momento in cui si è avviata la pulizia etnica all’interno della regione. Gaza all’Egitto, la sponda occidentale alla Giordania, Gerusalemme e altri territori ad Israele: che esista questa ipotesi di soluzione al conflitto è chiaro da tempo. Il fatto che a questa opzione si riconducano i recenti avvenimenti di Gaza è invece ipotesi da analizzare. Certo è che si tratta della peggiore fine ipotizzabile per chi si è visto sottrarre le proprie case e le proprie terre. I profughi palestinesi sono apolidi. Rischia di profilarsi l’opposto dell’unica opzione valida, in termini di rispetto dei diritti umani e di autodeterminazione dei popoli: uno stato unico laico e aconfessionale, in cui riescano a convivere cristiani, arabi ed ebrei. Quest’ultima ipotesi è irrealizzabile senza l’intervento della comunità internazionale. Il sionismo e il rancore dei palestinesi sono al momento incompatibili. L’impotenza dei laici di Al-Fatah è una sconfitta, di cui la comunità internazionale deve prendersi le responsabilità, partendo dalla concessione di totale impunità che viene lasciata alle destre sioniste. Che i Fratelli Musulmani non siano un nemico da combattere è opinione condivisa anche dal capitalismo italiano. «L’idea dell’economia che esprimono i Fratelli musulmani è di gran lunga più vicina alle politiche liberiste di Chicago che al socialismo. Secondo loro l’aiuto ai ceti più svantaggiati deve dipendere più dalle moschee che dallo Stato» (il Sole 24 Ore, 21/11/2012).
Le lacrime per i bambini di Gaza non servono a niente, come non sono serviti i dispiaceri manifestati nel corso di questi decenni. Occorre lavorare per una sinistra capace di fare dell’Unione Europea un baluardo a difesa della causa palestinese.
I palestinesi erano un popolo lontano dalla religione. Lavorare perché Gaza diventi un protettorato islamico legato all’Egitto potrebbe essere un compromesso accettabile per le destre israeliane. È solo un’ipotesi, più credibile delle ricostruzioni proposte dai telegiornali italiani o della propaganda sionista e di Hamas.
da www.laprospettiva.eu