di Geraldina Colotti

Hector Navarro ci riceve nel suo studio al ministero dell’Energia elettrica, tra bilanci di fine anno e bollettini medici sulla salute del presidente Hugo Chávez, convalescente a Cuba. Cinque volte ministro del governo bolivariano, Navarro assolve attualmente anche un altro incarico delicato, dirige la formazione politica del Partito socialista unito del Venezuela (Psuv). Sotto il ritratto del presidente, alcune foto di famiglia. A parte, quella di un uomo in divisa: «Era mio padre – dice il ministro – è stato lui a insegnarmi per primo il marxismo. Le Forze armate in Venezuela hanno una storia diversa da quelle degli altri paesi latinoamericani».

Perché?
In gran parte dell’America latina, in ogni famiglia facoltosa c’era sempre un figlio negli alti ranghi militari. Da noi, le forze armate costituivano un’alternativa per i ragazzi che non potevano andare all’università. Negli anni ’40, fu così per mio padre. Era il secondo figlio di una famiglia modesta che aveva potuto mantenerne agli studi soltanto uno. Come Hugo Chávez avrebbe voluto essere calciatore, lui voleva fare il pittore, però andò alla scuola militare e poi finì per ribellarsi prima contro la dittatura di Perez Jimenez e poi contro il governo di Romulo Betancourt, negli anni ’60, e dovette andare in esilio per sfuggire all’arresto. Nelle forze armate venezuelane è dunque sempre esistita una spinta autenticamente di sinistra, che si è nutrita di distinte correnti, la prima delle quali è il socialismo. Il Movimento bolivariano rivoluzionario-200 nella Forza armata nasce negli anni ’80 per impulso dell’allora capitano Hugo Chávez e dei suoi cadetti. Si alimenta di questo passato recente e riscatta le nostre origini anticoloniali, le tre radici: quella sociale di Ezequiel Zamora, quella politica del libertador Simon Bolivar e quella concettuale di Simon Rodriguez. Una ricchezza straordinaria fino ad allora negletta. Il Movimento V Repubblica (Mvr), erede diretto di quella esperienza, si presenta alle elezioni del ’98 definendosi umanista, socialista e nazionalista. E vince con il 56% dei voti nella coalizione composta da Movimento al socialismo (Mas), Movimento elettorale del popolo (Mep), Patria per tutti (Ppt) e Partito comunista del Venezuela (Pcv). Prima delle elezioni, ricordo che discutemmo per giorni. Io dicevo a Chávez: non è la stessa cosa costruire un partito per fare la rivoluzione o per vincere le elezioni. Comunque, serviva unire le forze per andare al governo, e ci siamo riusciti, anche se subito dopo abbiamo scontato la diserzione di alcuni ministri, e deviazioni all’interno dell’Mvr. Né io, né il ministro Jorge Giordani abbiamo fatto parte dell’Mvr. Da giovanissimo avevo partecipato alla guerriglia con compiti logistici, avevo una formazione politica marxista. Quando il presidente Chávez ha deciso di creare un nuovo partito su presupposti più chiari, mi ha chiesto di far parte della commissione promotrice, e ho accettato. Il Psuv è nato nel 2007.

E ora cos’è il Psuv?
Fino a venti anni fa, anche in Venezuela era difficile ricominciare a parlare di socialismo, men che meno di comunismo. Abbiamo scontato, anche da noi, quella sorta di «maccartismo» seguita alla scomparsa del campo socialista e all’egemonia culturale neoliberista. La rivoluzione bolivariana ha però cambiato le cose: sempre più decisamente dopo il colpo di stato del 2002 e a partire dal 2005. Oggi, nessuno ha più pregiudizi. Il tema del socialismo fece però ancora molto discutere durante il congresso di fondazione del Psuv. Ma alla fine, nel nostro statuto, oltre alle Tre radici, c’è il materialismo storico-dialettico, ci sono i principi del marxismo-leninismo e quelli della Teologia della liberazione. Il Psuv è una macchina per vincere le elezioni ben oliata, un partito di massa, e ha anche buoni quadri politici. Siamo in una fase di sviluppo, un momento positivo. Abbiamo discusso il Secondo piano della nazione a tutti i livelli della società. La risposta politica, la partecipazione popolare è molto ampia. Anche chi non se la sente di militare in prima persona, di fare riunioni fino all’alba dopo il lavoro, conosce almeno una o due persone che lo informano. Studiamo molto Gramsci, ma la formazione politica è il grande problema che adesso dobbiamo affrontare. 14 anni è poco tempo per una rivoluzione, non abbiamo raggiunto il punto di non ritorno come dice il presidente Chavez, né credo abbiamo ancora individuato quale sia. Abbiamo messo a punto un progetto di scuola-quadri che, per via delle tornate elettorali che abbiamo vinto, non si è ancora formalizzato. Da noi, tutti fanno tutto, è una grande ricchezza ma anche un limite. La scuola è concepita come un corso di specializzazione di 5 semestri. Prevede cinque livelli teorico-pratici per formare i dirigenti del partito, quelli di comunità e quelli dello stato. In questo modo, così come ha fatto il Partito comunista cubano nel suo ultimo congresso, si eviterà il cosiddetto «effetto paracadute», quello degli incarichi calati dall’alto senza legittimità reale.

Secondo la destra, esistono forti divergenze al vostro interno, addirittura pericoli di «golpe» da parte delle Forze armate. La malattia del presidente Chavez getta un’ombra di incertezza sul futuro della «rivoluzione bolivariana»?
Come tutti gli organismi in movimento, esiste una dialettica interna. Mi sento però di dire con certezza che quello del «golpe» interno da parte delle Forze armate è davvero un problema del passato. Non solo per la fedeltà al presidente e alla linea politica che rappresenta, ma anche per le ragioni storiche a cui accennavo prima e per le trasformazioni profonde che hanno interessato i nostri militari. Oggi io – un civile – tengo lezioni e conferenza all’accademia, una cosa impensabile fino a dieci anni fa. Certo, non posso essere nella testa e nel cuore di tutti quelli che si mettono la camicia rossa e si dicono difensori del proceso. Non posso leggere nelle menti di tutti i governatori e i sindaci che sono stati eletti nelle nostre file. Abbiamo avuto molti voltafaccia, ma stiamo imparando la lezione. Per questo, dopo le regionali, il partito ha fatto una riunione a porte chiuse con tutti i governatori eletti.

In alcuni casi, però, il Partito comunista ha scelto di correre da solo, di non appoggiare alcuni candidati, ritenuti poco rivoluzionari, raggiungendo anche il 20%.
Sì, ma alcuni di quei candidati non graditi hanno preso oltre il 70% dei voti. D’altronde, molti dirigenti del Partito comunista, anche provenienti dalla guerriglia come Maria Léon o Soto Rojas, hanno scelto di far parte del Psuv fin dalla sua fondazione. Dobbiamo guardarci sia dal settarismo che dal trasformismo. Nella guerriglia degli anni ’60-70, dovevi essere un «marxista puro», anche per questo siamo rimasti isolati e abbiamo perso, non ci siamo resi conto che a portare aventi le cose eravamo prevalentemente studenti e intellettuali. Se sei rivoluzionario, non basta enunciare i principi, devi essere capace di stare nelle cose e di cambiarle in base a quei principi. Certo, la destra, il capitalismo, si mimetizza molto rapidamente, si veste di rosso chavista per fare i suoi affari e continuare a essere egemonica. Durante la campagna per la riforma elettorale, che perdemmo per pochi voti, la destra «endogena» si spaventò per il maggior potere che avrebbero avuto i lavoratori, i consigli comunali.Noi non siamo stati abbastanza capaci da contrastare la campagna di disinformazione, ma abbiamo anche visto alcuni governatori e sindaci che voltavano la testa dall’altra parte: il nuovo progetto, infatti, li avrebbe privati di potere, perché metteva all’ordine del giorno la creazione di uno stato comunale. Per questo, il tema del potere popolare continua a essere un elemento importante, uno dei grandi temi discriminanti: se continuiamo a sviluppare la democrazia partecipativa e protagonica che sta nella nostra costituzione e nello statuto del partito, il potere dei governatori e dei sindaci verrà diminuito, e i veri interessi verranno fuori.

Che modello di stato immagina per la vostra rivoluzione?
Un modello comunale, che poggi nelle migliori esperienze mutualiste, che dia al popolo e non allo stato il controllo dei mezzi di produzione e distribuzione. Fatto salvo alcuni grandi settori, come le Forze armate o l’elettricità, tutto il resto può essere gestito dal basso, in una federazione di comuni partecipate e protagoniste. In parte, questo già avviene. Stiamo facendo corsi di finanza partecipata alle comunità. Le misiones sono la fase di transizione dalla burocrazia capitalista a un sistema pubblico. Purtroppo, gran parte dei funzionari del nostro stato, è la stessa della IV repubblica. Il settore elettrico è un settore direttamente collegato alla sicurezza dello stato. Durante lo sciopero petrolifero organizzato dal padronato, abbiamo potuto resistere bruciando i mobili. Senza elettricità, invece, il cibo marcisce nei frigoriferi, il metro si ferma… E nel mio ministero, come ho denunciato di recente, ci sono sabotaggi e corruzioni. La nostra è una rivoluzione pacifica, in senso gramsciano. Una volta, Ramonet ha chiesto a Fidel quale fosse il più grande errore che avesse commesso. E lui rispose: aver creduto che qualcuno sapesse come si faceva il socialismo. Anche noi stiamo sperimentando il socialismo. Impariamo facendo. Facendo tesoro degli errori.

da il manifesto

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