di red.

Non è un bel periodo per l'immagine internazionale dell'IKEA. Dapprima si sono messi quei cocciuti lavoratori addetti alla movimentazione delle merci presso il deposito di Piacenza. Rivendicavano il rispetto del CCNL, dei diritti basilari dei lavoratori, come quello all'organizzazione sindacale e alla distribuzione equa dei carichi di lavoro e ancor oggi, a due mesi dall'inizio delle proteste e nel bel mezzo delle festività natalizie, non hanno smesso di lottare (qui una raccolta di materiali per essere aggiornati sulla vicenda). Come se non bastasse si sono aggiunti in tanti alle proteste, organizzando presidi e volantinaggi dinanzi a tanti IKEA store in tutt'Italia e costringendo l'azienda a bloccare i commenti sui social network per alcuni utenti e a chiudere una pagina internet; in entrambi i casi perché

migliaia di persone solidali con la lotta dei lavoratori di Piacenza avevano riempito quegli spazi virtuali con commenti tutt'altro che lusinghieri per il colosso del mobile. Un duro colpo per il profilo di un'impresa che si ammanta di un'immagine pubblica sempre corredata di termini come 'democrazia', 'diritti', 'sviluppo', 'progresso', 'rispetto per le persone e l'ambiente'.

Al peggio non c'è mai fine, direbbe qualcuno. E, infatti, il mese di dicembre vede aprirsi un altro fronte per l'IKEA. Dopo i lavoratori di Piacenza, arrivano addirittura i palestinesi e le organizzazioni impegnate nella costruzione della solidarietà con questo popolo: accusano l'azienda di essere complice dell'apartheid israeliana.

Il 3 dicembre Adri Nieuwhof, attivista per i diritti umani e collaboratrice di 'The Electronic Intifada' chiede a Iyad Misk, un palestinese che vive in Cisgiordania e che parla ebraico, di contattare la filiale israeliana dell'IKEA per chiedere informazioni in merito ad una consegna a Beit Sahour, villaggio palestinese nei pressi di Betlemme. La società di spedizioni che lavora per l'IKEA, la Moviley Dror, sostiene che una tale consegna non sia possibile, perché entrare nell'area amministrata dall'Autorità Palestinese è pericoloso. Al massimo la consegna può essere effettuata ad un checkpoint vicino Betlemme. Beit Sahour è nell'Area C che, secondo gli accordi di Oslo, è quella sotto totale controllo militare israeliano, così come il 60% della Cisgiordania.

Adri però non si ferma qui. Chiede ad un'organizzazione israeliana, 'Who Profits' (un progetto di ricerca messo in piedi dalla Coalizione delle Donne per la Pace, con sede a Tel Aviv), di effettuare la stessa operazione tentata da Misk: contattare l'IKEA per avere informazioni sulle possibilità di consegna. Ma stavolta la merce non dovrebbe giungere in un villaggio palestinese, bensì in una colonia israeliana, Beitar Ilit che, come Beit Sahour, si trova nell'Area C. Per giungere bisogna attraversare diversi check point. Anche in questo caso la chiamata è trasferita alla Moviley Dror, la società addetta alla consegna. Solo che stavolta la risposta è diversa: è possibile far recapitare merci IKEA in una colonia israeliana.

L'IKEA attraversa quindi i check point per consegnare i propri prodotti ai coloni israeliani (è bene sottolineare che le colonie in Cisgiordania sono considerate illegali in base al diritto internazionale), ma non per arrivare in un villaggio palestinese (ancora legali, fino a prova contraria).

Jeff Handmaker, insegnante di diritto, diritti umani e sviluppo presso l'International Institute of Social Studies of Erasmus University, a Rotterdam (Olanda), ha sostenuto che “la nuova informazione che è emersa conferma che IKEA e la società che ha l'appalto per le spedizioni sono complici delle violazioni del diritto umanitario internazionale e dei diritti umani supportando in maniera attiva le politiche di trasferimento di israeliani verso le colonie illegali e rinforzando la chiusura delle aree palestinesi”, aggiungendo poi che “IKEA è complice dell'apartheid di Israele mettendo in atto una discriminazione palese a favore dei coloni ebrei della Cisgiordania ed ignorando l'oppressione cui è soggetta la maggioranza della popolazione palestinese che è impossibilitata a recarsi addirittura presso uno store IKEA, lasciando loro aperta solo la porta della consegna di prodotti.”

Il colosso non ha tardato troppo a rispondere. Con una lettera del 10 dicembre (e che riproduciamo integralmente di seguito, nella sua versione originale, in inglese) ha cercato di spiegare le proprie ragioni, sostenendo che “dal 2010 la compagnia di trasporto locale che coopera con IKEA Israele è stata in grado di consegnare i prodotti IKEA presso le abitazioni delle persone che vivono nelle aree controllate dall'Autorità Palestinese. Se si sono verificati episodi in cui il servizio di consegna non ha funzionato a dovere è un fatto increscioso e qualcosa su cui indagheremo.”

Jeff Handmaker, sollecitato da Adri Nieuwhof, ha commentato questa risposta. Il 20 dicembre ha scritto testualmente che IKEA “prende in considerazione solo metà del problema, cioè il loro trattamento differente dei coloni che vivono negli insediamenti illegali e dei palestinesi che vivono sotto occupazione.

Ma anche questa parte non è convincente. Anche se la filiale IKEA dovesse risolvere la questione della consegna ai palestinesi, molti di loro non sarebbero comunque in grado di visitare i loro negozi, a causa dei controlli israeliani dei movimenti verso e da i territori occupai. Quindi sono esclusi in ogni caso.

Ma IKEA Systems B.V. non risponde al problema principale, vale a dire l'aperta complicità della loro filiale con una grave violazione dei diritti umani, che si concretizza nel supporto all'impresa coloniale.

Fino a quano la filiale IKEA non si rifiuterà di vendere […] ai coloni che vivono nei territori occupati palestinesi, IKEA Systems B.V. sarà ancora complice delle violazioni del diritto internazionale.”

Si annunciano quindi tempi duri per l'IKEA, con le pressioni in tutto il globo che aumentano e con la possibilità sempre più concreta che riescano ad incidere sulla capacità dell'azienda di macinare profitti.

da Palestina rossa.it

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