di Laura Eudati
Gli europei si ribellano, e fanno bene. Così il premio Nobel per l’economia Paul Krugman commenta i risultati delle elezioni in Francia e in Grecia sulle colonne del New York Times. Krugman da tempo critica ferocemente l’austerity decisa dall’asse Merkel-Sarkozy, affermando con convinzione che i tagli portano soltanto alla recessione. Oggi torna a ripeterlo. Ecco la sua analisi, tradotta in italiano.
«I francesi si stanno ribellano. I greci, anche. Era ora. Entrambi i Paesi hanno convocato domenica delle elezioni che in realtà sono state un referendum sull’attuale strategia economica europea, e gli elettori di entrambi i Paesi hanno mostrato pollice verso. Non è affatto chiaro quando questi voti porteranno al cambiamento reale delle politiche, ma il tempo della strategia della crescita attraverso l’austerità è chiaramente agli sgoccioli – e questa è una buona cosa.
Naturalmente non avete sentito dire nulla del genere dai soliti sospetti durante la campagna elettorale. In realtà è risultato quasi divertente vedere gli apostoli dell’ortodossia mentre tentavano di dipingere il cauto e gentile Hollande come una minaccia. «E’ piuttosto pericoloso», dichiarava l’Economist, osservando che «davvero crede nella necessità di creare una società più giusta». Quelle horreur!
Ciò che conta è che la vittoria di Hollande segna la fine di “Merkozy”, l’asse franco-tedesco che ha messo in atto il regime di austerità degli ultimi due anni. Sarebbe davvero un «pericoloso» sviluppo se quella strategia stesse funzionando, o se avesse una ragionevole possibilità di funzionare. Ma questo non sta accadendo. Gli elettori d’Europa hanno dimostrato di essere più saggi delle migliori e delle più brillanti menti del Continente.
Cosa c’è di sbagliato nel prescrivere tagli alla spesa come rimedio ai malanni dell’Europa? Una delle risposte è che la bolla della fiducia non esiste – ovvero, la certezza secondo la quale abbassando radicalmente la spesa pubblica avrebbe in qualche modo incoraggiato i consumatori e le aziende a spendere di più è stata incredibilmente confutata dall’esperienza dell’ultimo biennio. Dunque i tagli alla spesa in una economia depressa semplicemente rende la depressione ancora più profonda.
Inoltre pare che non vi sia alcun tornaconto, seppur piccolo, agli sforzi. Consideriamo il caso dell’Irlanda, che è stata un soldato ubbidiente durante questa crisi, imponendo una austerità molto aspra nel tentativo di riguadagnare i favori dei mercati azionari. Secondo l’ortodossia prevalente, questa mossa dovrebbe funzionare. E la voglia di crederci è così forte che gli esponenti delle élite europee continuano a proclamare che l’austerità irlandese è servita, e che l’economia irlandese ha cominciato a risalire.
Ma non è vero. E nonostante non lo verrete mai a sapere dai media, il costo del denaro in Irlanda è molto più alto che in Spagna o in Italia, per non parlare della Germania. Dunque quali sono le alternative?
Una risposta – risposta che è molto più sensata di quanto qualcuno vorrebbe ammettere in Europa – sarebbe l’uscita dall’euro, la moneta unica europea. L’Europa non si troverebbe in questo pantano se la Grecia avesse ancora la sua dracma, la Spagna la sua peseta, l’Irlanda la sua sterlina e così via, perché la Grecia e la Spagna avrebbero quello che oggi manca: un modo veloce per recuperare la competitività, ampliare le esportazioni, ovvero la svalutazione.
Come contrappunto alla triste storia dell’Irlanda, consideriamo il caso dell’Islanda, trasformata in tabula rasa dalla crisi finanziaria ma che è stata capace di reagire svalutando la propria moneta, la krona (e ha inoltre avuto il coraggio di lasciare le sue banche al fallimento e correre verso il default dei propri debiti). È certo che l’Islanda sta sperimentando quella risalita che l’Irlanda avrebbe dovuto avere, ma che non ha.
Tuttavia l’uscita dall’euro avrebbe effetti dirompenti, e rappresenterebbe inoltre la grossa sconfitta del “progetto europeo”, lo sforzo di lungo corso per promuovere pace e democrazia attraverso una intima integrazione. C’è un’altra strada? Sì, c’è – e i tedeschi hanno dimostrato quanto quella strada può funzionare. Sfortunatamente, non stanno facendo tesoro della propria esperienza.
Parlate della crisi dell’euro ai commentatori tedeschi, e vi diranno che la loro economia ha toccato picchi negativi nei primi anni del decennio scorso ma che è riuscita a risanarsi. Ciò che non vogliono riconoscere è il fatto che questo risanamento fu guidato dall’emergenza di un grosso mercato tedesco da contrapporre agli altri paesi europei– in particolare a quelle nazioni che oggi sono in crisi – che all’epoca stavano crescendo a dismisura e stavano attraversando una inflazione al di sopra del normale, grazie ai bassi tassi di interesse. I paesi europei in crisi potrebbero essere in grado di emulare il successo della Germania se sperimentassero un ambiente favorevole simile – e cioè se questa volta fosse il resto dell’Europa, e specialmente la Germania, a sperimentare un piccolo boom di inflazione.
E così l’esperienza tedesca non è, come immaginano in Germania, un argomento per imporre l’austerità al Sud Europa; è un argomento valido per promuovere politiche di espansione altrove, in particolare per togliere alla Banca Centrale Europea l’ossessione nei confronti dell’inflazione e farla focalizzare sulla crescita.
I tedeschi, non occorre dirlo, non amano questa conclusione, e nemmeno la amano i dirigenti della Banca Centrale. Si aggrapperanno ai loro sogni di prosperità ottenuta con il dolore, e insisteranno dicendo che la loro strategia fallimentare è l’unica cosa sensata da fare. Sembra, però, che non avranno più l’appoggio incondizionato dell’Eliseo. E questo, credeteci o no, significa che l’euro e il “progetto europeo” ora hanno maggiori possibilità di sopravvivere di quanto non ne avessero qualche giorno fa.
da glialtrionline.it, martedì 8 Maggio 2012