Nel 2019, le rilevazioni dell’INPE (l’Istituto nazionale di ricerca spaziale brasiliano) raccontano un’accelerazione degli incendi, +79% rispetto allo stesso periodo del 2018.
In un contesto generale in cui, secondo la Global Forest Watch, il mondo ha perso, sempre nel 2018, più di 12 milioni di ettari di copertura arborea, 3,6 milioni dei quali costituiti da foresta pluviale.

Quali spinte economiche si trovano alle spalle di questo fenomeno?
Chi effettivamente ha interesse a proseguire in una deforestazione che avanza a ritmi vertiginosi, e non solo nel continente sudamericano?

Dalla politica di Bolsonaro carburante per gli incendi.
Una parte della risposta si trova innanzitutto nelle potentissime lobby dell’agribusiness che hanno consentito l’elezione dell’attuale presidente del Brasile Jair Bolsonaro, e continuano a sostenerlo. E così il neopresidente, che già in campagna elettorale parlava dell’Amazzonia verde come di un’ostacolo allo sviluppo, ha licenziato il presidente dell’INPE, Ricardo Galvao, per aver diffuso dati sgraditi sull’escalation della deforestazione.

Inoltre ha tagliato il 24% il budget discrezionale dell’agenzia ambientale IBAMA (Brazilian Institute of the Environment and Renewable Natural Resources) e togliendo la scorta di polizia ai suoi ispettori inviati sul territorio per verificare gli abusi. Risultato? Secondo un’analisi del «New York Times» su documenti pubblici, nei primi 6 mesi del 2019 l’agenzia ha ridotto del 20% le “azioni di contrasto intese a scoraggiare la deforestazione illegale, come multe o sequestro di attrezzature”.

Inoltre la deforestazione illegale prospera per i nostri stili di consumo, di cui l’attuale filiera del cibo si nutre, promuovendoli a sua volta per alimentare il profitto delle grandi multinazionali.

Che sia per ricavare olio di palma e mangimi, o per allevare bestiame, la domanda di nuove estensioni di terra cresce e la distruzione per ingrandire e rinnovare pascoli e piantagioni è funzionale al business delle grandi multinazionali: JBS, Bunge, Cargill, Stop & Shop, Costco, McDonald’s, Walmart e Sysco.

Una recente inchiesta, https://stories.mightyearth.org/amazonfires/index.html,
ha mostrato la vicinanza tra le zone più colpite dai roghi e la dislocazione delle infrastrutture necessarie alla filiera della carne e alle vie di comunicazione legate al trasporto della soia e dei suoi derivati.

gc amazzonia

Prima dell’industrializzazione il sistema climatico terrestre aveva raggiunto un equilibrio tale per cui la superficie emetteva circa la stessa quantità di energia che assorbiva.

Ma il sistema climatico terrestre è estremamente sensibile al cambiamento di una delle sue componenti e quando le concentrazioni di gas serra in atmosfera aumentano, più calore rimane intrappolato nel nostro pianeta, squilibrando il sistema con conseguenze devastanti fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio, con temperature medie di molti gradi più alti rispetto a oggi.

Le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera hanno raggiunto nuovi record nel 2017, con la CO2 al146% in più rispetto ai livelli preindustriali.

Rispetto a 30 anni fa la capacità dei gas serra di alterare il bilancio energetico terrestre è aumentata del 41%; la causa sono le attività umane, e in primo luogo l’utilizzo di combustibili fossili.

Nel 2010 il 35% delle emissioni globali provenivano dal settore dell’approvvigionamento energetico, il 24% dal settore dell’agricoltura, il 21% dall’industria, il 14% dai trasporti e il 6.4% dagli edifici.

Le emissioni globali inoltre sono ancora aumentate nel 2017, il tutto mentre, per restare entro la soglia dei 2°C di riscaldamento globale, entro il 2030 dovremmo tagliare le emissioni del 25% rispetto al 2010 e raggiungere lo zero netto nel 2070, mentre per restare entro 1.5°C nel 2030 le emissioni dovrebbero essere del 45% più basse rispetto al 2010 ed essere pari a zero già nel 2050.

Mantenendo le condizioni attuali già nel 2030 potremmo raggiungere un riscaldamento globale di +1.5°C per arrivare a oltre 4°C in più entro fine secolo.

I target nazionale di riduzione sono del tutto insufficienti rispetto a quanto la scienza ci chiede per contenere il riscaldamento globale sotto la soglia degli 1.5°C.

La proposta di Piano Nazionale Energia e Clima presentata a fine 2018 è stata giudicata poco ambiziosa e la bozza di DL ambiente e clima sposta al 2040 l’azzeramento dei sussidi ai fossili.

ambientaprc22

Infografica

Car@ compagn@,

Secondo l’IPCC, International Panel on Climate Change, abbiamo 11 anni per vincolare i governi a scelte energetiche, produttive e economiche, che frenino l’aumento delle temperature e le immissioni di CO2 prima che il processo diventi irreversibile.

La questione climatica è strettamente connessa alla salute, alla lotta di classe, alla difesa del territorio, alla riconversione, in chiave di tutela ambientale, del lavoro.

Dal 20 al 27 settembre ci sarà la Climate Action Week, settimana di mobilitazione sul tema della crisi climatica che culminerà nel terzo Global Climate Strike, il 27 settembre.

Invitiamo i circoli e le/i Compagne/i tutt@ ad impegnarsi per la riuscita della giornata del 27 settembre e ad essere presenti alle iniziative organizzate nelle varie città.

Qui la mappa, in continuo aggiornamento, delle mobilitazioni in tutta Italia.

In più sulla pagina ambiente del nostro sito, a partire dal 20 settembre, troverete grafiche che si possono stampare, diffondere sui social ed usare come immagine di copertina di Fb ed altro perché realizzate nel formato idoneo. Insieme alle infografiche ci sono anche dei testi che possono essere stampati sul retro o utilizzati come post sui vari social, uno per ogni argomento delle grafiche. http://web.rifondazione.it/home/index.php/territorio-e-ambiente

Al lavoro e alla lotta,

Maurizio Acerbo, Segretario nazionale
Elena Mazzoni, responsabile nazionale ambiente

- volantino

190920globalstrike

em26 1di Elena Mazzoni -

Presentata a Roma, nella redazione del Salvagente, la video-inchiesta di Andrea Tomasi sul più grande inquinamento industriale delle falde acquifere nella storia italiana.

“La cosa più drammatica è stata scoprire che con la gravidanza e l'allattamento, noi stesse contaminavamo i nostri figli con i Pfas”. Michela Zamboni è una delle “Mamme no Pfas” ed ha parlato stamattina alla conferenza stampa che ha aperto una giornata intensa NoPfas.

Prima la presentazione, presso la redazione de “Il Salvagente”, della video inchiesta a loro dedicata dal provocatorio titolo “Pfas-Quando le mamme si incazzano”, poi l’udienza in Vaticano ed infine la consegna di una lettera al Ministro Costa.

Le donne venete, costituite in comitato dal 2017, e che avevamo già incontrato circa un anno fa mentre erano in presidio sotto la procura di Vicenza, combattono per vedere rispettati i diritti loro, e dei loro figli, ai beni comuni primari: acqua-salute-ambiente.

L’attacco ad acqua, salute ed ambiente, nella zona compresa tra le province di Vicenza, Verona e Padova, una zona che galleggia su una falda di acqua inquinata grande come il Lago di Garda, è riconducibile tutto sotto un’unica sigla, 4 semplici lettere che seminano terrore: PFAS.

Parliamo di composti perfluoro-alchilici di due tipi: quelli di prima produzione, chiamati C8, che vennero ritenuti pericolosi e patogenici nel 2000 e poi dei loro sostituti, quelli a catena corta, quelli che i filtri, introdotti quando ormai si era già in piena emergenza, non riescono a trattenere e per i quali si è cercato di inserire il limite 0, senza successo, nella Direttiva europea sulle acque.

La DuPont brevetta i catena corta, successori dei C8, nel 2005; sono il GenX e il C604, che in Italia arrivano inizialmente come scarti, il primo smaltito e riprodotto a Trissino, dove ha sede lo stabilimento della Miteni, il secondo a Spinetta Marengo, dalla Solvay.

Nel 2013 una class action statunitense ottiene il risultato sperato: la DuPont cessa la produzione di PFOA (acido perfluorottanoico) e il C8 Panel, il gruppo di studiosi a sostegno della class action americana contro la DuPont, intima di bloccare tutti i PCF derivati del fluoro.

Si svegliano in ritardo Italia ed Europa, iniziano a cercare scarichi di produzione nei fiumi  e arrivano al Po, alla Solvay di Alessandria e alla Miteni di Trissino.

Nel frattempo la Miteni, con un permesso concesso nel 2014 dalla Regione, relativo alla possibilità di fare il cambio di produzione dai C8, considerati nocivi, al GenX, e una autorizzazione integrata ambientale con validità 5 anni, converte la produzione.

Tutto tace finché non arriva il governo olandese, con uno studio riportato da Greenpeace, ad allertare l’Italia sullo strano traffico di scarti di GenX che era in corso tra l’Olanda e lo stabilimento Miteni di Trissino.

I Pfas hanno elevato potere anti-aderente, rendono impermeabili i tessuti, stanno nelle schiume antincendio, nei mascara waterproof, nei bagnoschiuma, nelle pentole.

Sono inodore, incolore, insapore.

Stanno lì.

E avvelenano.

Problemi di tiroide, di colesterolo, di diabete; Alzheimer e demenza, ipertensione, tumore al rene e al testicolo, sterilità femminile e possibili modifiche a livello genitale nei bambini, queste le conseguenze di elevate concentrazioni di Pfas nel sangue.
Avvelenano perché negli anni, nel ricco e produttivo Veneto, le industrie hanno scarico i residui di questa lavorazione nelle falde acquifere e da lì nei pozzi, nell’irrigazione, nell’alimentazione animale e poi nei bicchieri della popolazione.

Il lavoro di Andrea Tomasi, giornalista e autore dell’inchiesta, con immagini, interviste e documenti inediti, racconta di una storia drammatica che non è solo inquinamento, salute, ambiente ma anche perdita di posti di lavoro e crisi nel distretto agricolo più grande d’Italia.

“Non comprate a km zero”, intima il medico di base dal video, “non compro più le uova dal macellaio perché so che son del contadino del paese”, “prima non comperavo l’uva del Sud Africa, adesso solo quella”, “ai produttori locali, soprattutto di vino, dai paesi esteri vengono richieste certificazioni che attestino che non ci sono Pfas”, le fanno eco le mamma NoPfas.

Ci sono i dati, i documenti della Procura della Repubblica di Vicenza e le lettere spedite al Ministero dell’ambiente.

C’è la lettera, preoccupata, di Confindustria Veneto, datata febbraio 2018, che chiede di sospendere il processo di revisione dell’A.I.A., rinviandolo al momento in cui saranno disponibili le BAT di settore, che molto volgarmente significa diminuire le tutele per i cittadini per almeno un decennio.

Tracce di PFAS nelle falde sono state trovate anche in Lombardia, Piemonte e Toscana.

Giuseppe Ungherese, Responsabile campagna inquinamento di Greenpeace, che da anni segue la vicenda, durante la conferenza stampa di presentazione dell’inchiesta, chiede “alla Regione Veneto che, oltre al rapido avvio della bonifica del sito produttivo di Miteni, vengano individuati e censiti tutti gli scarichi inquinanti, favorendo una rapida riconversione industriale di tutti quei processi produttivi responsabili dell’inquinamento da Pfas. Alternative più sicure a queste sostanze esistono e sono già disponibili sul mercato”.

Ma diamo un po’ di numeri: 350mila persone in quella che è definita zona Rossa A, 800mila in un’area che si allarga sempre di più, fino a raggiungere il delta del Po.

I Pfas a catena corta sono assimilabili e si trasferiscono più facilmente dal comparto ambientale a quello alimentare, con particolare riferimento a ortaggi, verdura in foglia e frutta.

Una filiera agroalimentare tra le più rinomate in Italia messa in ginocchio.

Il danno economico è forte quasi quanto quello ambientale, l’inchiesta lo restituisce con forza quando ci mostra i cancelli chiusi della Miteni, le bandiere dei sindacati appese fuori, i lavoratori in picchetto.

Perché in tutto ciò c’è anche il fallimento dell’azienda, proprietà di ICIG, un investitore che acquista pezzi di grandi conglomerati farmaceutici o chimici che non sono più ritenuti interessanti dai gruppi di origine e che, nel 2009, ha comprato Miteni dal Gruppo Mitsubishi al prezzo simbolico di 1 euro. Negli ultimi dieci anni Miteni Spa ha sempre chiuso il bilancio in perdita riducendo la forza lavoro del 28%, da 176 a 121 dipendenti.

Il gruppo ICIG è sua volta controllato dalla holding lussemburghese ICI, International Chemical Investors, che, alla fine 2016, contava un capitale di 238 milioni di euro.

Alla fine del 2016 invece, le risorse finanziarie con cui Miteni avrebbe dovuto  far fronte ad eventuali risarcimenti, erano pari ad appena 6,5 milioni di euro.

Va detto che le prime contaminazioni della Miteni risalgono al 1966; seguono, negli anni 90 del secolo scorso, una serie di denunce per smaltimento di rifiuti tossici, un’ interrogazione del consigliere provinciale del prc Luciano Ceretta e una serie di denunce per violazioni ambientali, per questo si parla di eventuali risarcimenti.

Una cifra modesta 6,5 milioni di euro se paragonata con i soli costi per il rifacimento degli acquedotti, stimati intorno a 200 milioni di euro.

Ma la Miteni risolve il problema alla radice: dichiara fallimento e procede ai licenziamenti collettivi di 121 lavoratori.

Per i dipendenti dell’azienda, rei di aver aderito ad uno sciopero, indetto dalla RSU in denuncia della situazione di difficoltà in cui versano, incluso il mancato pagamento del residuo degli stipendi da maggio 2018, si prospettano giorni di contrattazione sindacale con l’aggravante che essi devono presidiare gli impianti perché, trattandosi di un’azienda soggetta a legge Seveso, l’alto rischio di incidenti rende necessario un costante monitoraggio e mesi prima della definitiva chiusura.

La notizia della definitiva chiusura dell'azienda, poi, viene dopo quella dell’avvio della procedura di fallimento, iniziata il 26 ottobre del 2018, la perfetta conclusione di una politica aziendale che è stata sempre quella di tutelare il capitale di fronte al lavoro, alla salute e all’ambiente.

Secondo l'Ispra – come ha certificato in un dossier inviato al ministro dell'Ambiente Sergio Costa a gennaio 2019 -il danno certificato per i Pfas del Veneto è pari a 136,8 milioni di euro.

Proprio al Ministero dell’ambiente si sono recate le mamme NoPfas alle 16:00, con una lettera, indirizzata al Ministro Sergio Costa, per ricordargli l’impegno preso

di fissare limiti nazionali per i Pfas. Si vuole chiedere con forza alla politica una maggiore attenzione per prevenire e risolvere le cause che possono dare origine a nuovi conflitti e disastri ambientali.

L’hanno consegnata con indosso le loro nuove magliette, non più quelle bianche con su i nomi dei loro figli e la concentrazione di Pfas nel loro sangue, ma azzurre, con in bianco la scritta 0%PFAS, 100% happy.

Le maglie sono cambiate ma la determinazione, il coraggio, la competenza, sono le stesse del primo giorno, le stesse con cui si portano avanti le battaglie fino alla vittoria.

 

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Vista l'importanza della giornata ed essendo per noi l'ultimo giorno di campagna elettorale, abbiamo pensato di unirci tutte e tutti al "tweet bombing" lanciato dai Giovani Comunisti/e e organizzato per la lista "LA SINISTRA".

Twittiamo dai nostri profili e dalle pagine che gestiamo le seguenti frasi:

1) Cambiamo il sistema, non il clima;
2) Non c'è ambientalismo con il capitalismo;
3) Demercificare la natura, riconvertire l'economia;
utilizzando, alla fine di ogni frase, l'hashtag #LaSinistra accompagnato da un secondo hashtag, #FridaysForFuture, specifico per la giornata.
Impegnamoci a far sentire la nostra voce anche su Twitter, e invitiamo più persone possibili a partecipare.

Elena Mazzoni
Responsabile nazionale Ambiente PRC-SE

Clarissa Castaldi
Responsabile Comunicazione GC PRC-SE

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