di Gino Castaldo
L'attesa, frenetica, finisce quando finalmente sul palco dell'arena Unipol arriva a passo di trionfo la band che sta occupando i massimi vertici dell'olimpo rock, i britannici Muse, oggi onnipotenti, magniloquenti, maestosi nella loro apparizione alla cerimonia delle Olimpiadi, e ora in concerto, sulla scia della loro ultima creazione, il disco The 2nd law, intitolato con una certa dose di presunzione alla seconda legge della termodinamica, quella decisiva che stabilisce la crescita dell'entropia nell'universo, nella fattispecie applicata alla insostenibilità della crescita economica del pianeta.
La scena è relativamente contenuta, vista l'invernale necessità di spazi al coperto, ma è comunque esplosiva. I Muse, partiti da un background alternativo, hanno acquisito col tempo l'ampiezza di toni che condensa passate ambizioni progressive, compresi gli eccessi di retorica del genere, dimostrando, questo sì in contrasto con i tempi, la voglia massimalista di puntare al massimo, in alto, verso un'epica globale delle possibilità narrative. Ma è forse proprio questo eccesso di passione, non sempre stilisticamente accettabile, che spiega il successo dei tre Muse, tanto, perfino troppo da dire, in un mondo che vede solo piccoli dettagli e non osa tentare grandi discorsi. Ai ragazzi piace, si lasciano trascinare docilmente in questo gorgo stracolmo di suggestioni, canti esaperati, sensazioni forti.
Il palco, nelle loro mani, sembra una febbrile macchina elettrica, con luci e suoni che aggrediscono lo spazio. Partono aggressivi e reboanti con The 2nd law unsustainable e Supremacy, dal disco appena pubblicato e poi procedono tra vecchie e nuovi pezzi mettendo in mostra i gioielli di famiglia, una notevole capacità di slittare tra bordate rock più tradizionali, ritmi più moderni e intricati, e soprattutto densi, a volte ampollosi e gorgoglianti mélange pseudosinfonici.
La platea urla, applaude, sottolinea il battito forte di Resistance, la scansione selvaggia di Supermassive black hole, gode quando una piramide rovesciata di schermi scende dall'alto a illustrare i suoni, segue con ardore la relativamente mansueta Animals, si lascia trasportare in questo mondo vagamente apocalittico, mai temperato dall'ironia, l'unica tra le trame narrative che i Muse ignorano totalmente. La gran parte del concerto scorre con pochi chiaroscuri, le tinte sono quasi sempre invariabilmente forti, ridondanti, anche se con esperta malizia a tratti scendono su melodie più dolci e "normali".
Certo, i Muse, tutto sono tranne che un gruppo normale. Chiedono un'adesione viscerale e incondizionata, e quindi si sottopongono a un giudizio inevitabilmente estremo, li si può amare alla follia, ma anche detestarli cordialmente, se non altro per questo eccesso di lirismo, da indigestione emotiva. A volte sembrano pregare, come volessero costruire un gospel contemporaneo, e probabilmente la loro ambizione ultima è quella di essere gli ultimi tra i sognatori, tra severi moniti all'umanità e le focose cavalcate collettive alla Time is running out.
Per non parlare del recente singolo Madness. Quando parte, col suo ritmico e destrutturato balbettio, sembra un nuovo inno dei tempi, e la gente lo recepisce proprio come tale, mentre il cantante esibisce occhiali con schermi incorporati, ovvero la follia della civiltà dei simulacri visivi E, come si dice in questi casi, sono solo tre, Matthew Bellamy, Dominic Howard, Christophe Wolstenholme, ma dal vivo sembrano il triplo, anzi sembrano un'intera orchestra sinfonica, con tanto di timpani, tromboni e controfagotti.
da la Repubblica