di Marina Forti

Nella successione di eventi che ha portato la polizia sudafricana ad aprire il fuoco contro una folla di minatori in sciopero, massacrando 34 persone, c'è un passaggio che può aiutare a ricostruire il quadro - e forse dice perché la sparatoria nella miniera di platino di Marikana avrà effetti ben oltre il conflitto sindacale. Mercoledì pomeriggio, il giorno prima del massacro, due leader sindacali sono andati a visitare i lavoratori accampati ormai da parecchi giorni sulla collina rocciosa che sovrasta la miniera.


Quel giorno i negoziati con la compagnia mineraria Lonmin erano definitivamente collassati, e un contingente di tremila poliziotti in assetto antisommossa aveva circondato il sito con decine di blindati: come ai vecchi tempi, fucili automatici di fronte a lance e machete, e alta tensione. Nel tardo pomeriggio è arrivato il corteo di auto di Senzeni Zokwana, presidente della National Union of Mineworkers (Num), il sindacato nazionale dei minatori. Zokwana è salito su un nyala , un blindato della polizia, ed è rimasto a distanza dagli scioperanti. Il Num non aveva appoggiato lo sciopero lanciato il 10 agosto dagli addetti agli scavi nei pozzi - quelli che fanno il lavoro più duro e malpagato - e quel pomeriggio Zokwana ha solo chiesto loro di tornare al lavoro. Poi se ne è andato in gran fretta «con la coda tra le gambe», scrive un cronista del settimanale sudafricano Mail & Guardian . Solo minuti dopo è arrivato Joseph Mathunjwa, presidente della Association of Mineworkers and contruction Union (Amcu) - sindacato più giovane e descritto dai media come «radicale». Questi ha rifiutato di salire sul nyala e si è incamminato verso gli scioperanti. La polizia l'ha persuaso a fermarsi ai piedi della collina, ed è là che Mathunjwa ha parlato per tre quarti d'ora ai lavoratori, dichiarando che il suo sindacato li avrebbe difesi da rappresaglie e licenziamenti - ma pregandoli di desistere dall'azione di forza, perché «è scritto sulle rocce» che la polizia vuole sgomberare e ci sarà sangue. Sappiamo come sono andate le cose. Molti, in Sudafrica, hanno attribuito alla rivalità tra i due sindacati una parte della responsabilità della violenza oltre ovviamente alla parte della polizia che si è fatta prendere dal panico, ed è più abituata a fare fuoco che a contenere folle o a trattare. E' vero che, prima del massacro, gli scontri a Marikana avevano già fatto una decina di morti tra militanti dei due sindacati, inclusi due agenti di polizia.
Ma anche il conflitto tra i due sindacati è un sintomo della rabbia profonda che cova alla base della società sudafricana, e che il governo dell'African National Congress dovrà ben affrontare. Perché quelle miniere «sono circondate da baraccopoli di migliaia di disoccupati, decine di migliaia di persone senza lavoro, senza istruzione, riottose», come diceva ieri un analista finanziario (all'agenzia Reuter). La storia nella miniera Lonmin a Marikana è cominciata quando gli addetti ai pozzi (i minatori «veri») hanno chiesto più soldi: oggi guadagnano 4.000 rand al mese, circa 400 euro, con mille rand supplementari per chi non alloggia nei dormitori aziendali (ma ad esempio nella bidonville a poche centinaia di metri dalla miniera, da cui centinaia di donna si sono unite agli scioperanti). Non si vive con quella paga, hanno ripetuto in tutti questi giorni, e hanno «sparato» la richiesta 12.500 rand, oltre 1.200 euro. Ora molti accusano il leader del Amcu di aver illuso quei lavoratori ignoranti che fosse una richiesta realistica (lui ha negato di aver mai fatto quella cifra). La Amcu nasce da una costola del vecchio sindacato.
La Nationa Union of Mineworkers ha una storia gloriosa; fondata negli anni '80 ha combattuto sotto il regime dell'apartheid e sotto la guida dell'allora presidente Cyril Ramaphosa è diventato uno dei maggiori affiliati alla confederazione sindacale Cosatu, potente alleato dell'African National Congress. Da allora è cambiato tutto. Finito l'apartheid, il Anc è da 18 anni al governo. La Cosatu si è battuta per politiche sociali, ma si è occupata meno del suo mestiere di sindacato. Bisogna riconoscere che il Sudafrica ha un buon sistema di welfare: nel 2010-'11 circa il 10% del budget dello stato è andato in sicurezza sociale e sussidi al reddito, e circa il 15% in istruzione, sanità, edilizia popolare (dall'African Economic Outlook, 2012). Eppure anche dopo un decennio di crescita (ora rallentata) le diseguaglianze sociali restano profonde, perfino cresciute, e oggi il 40% dei circa 50 milioni di sudafricani vive con meno di 2,50 dollari al giorno. Inutile dire che la povertà ha la pelle nera.
Nel frattempo la distanza tra i dirigenti della Num e i suoi 360mila iscritti (a livello nazionale) è cresciuta. Non solo Cyril Ramaphosa è oggi un ricco businessman che siede proprio nel consiglio d'amministrazione di Lonmin, la compagnia proprietaria della miniera di platino di Marikana. Il suo successore, Frans Baleni, ha relazioni strette con la Camera delle miniere (l'associazione imprenditoriale), e ha fatto una strenua opposizione al progetto di nazionalizzare le miniere. Non sorprende che alla Lonmin gli iscritti alla Num siano scesi dal 66% al 49% dei dipendenti, e siano invece aumentati gli iscritti alla Amcu. Del resto Mathunjwa era un dirigente locale della Num, espulso nel 1999 dopo aver guidato uno sciopero (sconfessato dalla dirigenza nazionale) in una miniera di carbone dove gli addetti ai pozzi ottennero una gratifica. Da allora la popolarità della Amcu è cresciuta.
Gli scioperi degli addetti ai pozzi si sono moltiplicati; l'ultimo episodio, in gennaio nelle miniere di platino di Impala, regione di Rustenberg, ha bloccato per settimane la produzione e si è concluso con un aumento salariale: proprio ciò che chiedono nella vicina Marikana. Sulla collina assediata dalla polizia c'erano molti iscritti alla Num, delusi dal sindacato. Con loro ci sono gli abitanti della bidonville, dove i militanti della Amcu lavorano - ma dove non metterebbero piene i dirigenti del Num. No, non è solo un conflitto sindacale: è la lotta di un'intera classe destituita contro la propria esclusione.

 

da il manifesto

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