di Marco Sferini

Il caso dell’Ilva di Taranto è, di giorno in giorno, in questa torrida estate sempre all’onore delle cronache. Ad oggi, tra corsi e ricorsi, sappiamo che la magistratura della Repubblica accusa il padron Riva di aver voluto l’attività inquinante che è a fondamento delle controversie di queste settimane sulla chiusura o sul mantenimento in stato di produzione del grande centro siderurgico meridionale.
Dicono i pubblici ministeri nelle motivazioni depositate il 7 agosto che deve essere impedito, in osservanza della legge, il protrarsi della situazione di trasgressione che è appunto l’inquinamento derivato dagli altiforni dello stabilimento.


Scrivono i giudici che il disatro prodotto è stato «determinato nel corso degli anni, sino ad oggi, attraverso una costante reiterata attività inquinante posta in essere con coscienza e volontà, per la deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti». Una affermazione gravissima, che inchioda Riva e famiglia alle responsabilità più alte verso tutta la struttura siderurgica, verso i lavoratori e le lavoratrici e verso l’intera zona di Taranto che ha subìto tutto questo in nome sempre e solo del profitto.
Se negli anni passati percorrevi col treno la tratta da Savona a Genova, ad un certo punto, passando per la stazione di Cornigliano (dove si trova l’ultimo stabilimento rimasto di Riva; l’altro era nella mia città, proprio a Savona), potevi leggere sulle mura lungo la ferrovia: “Riva cancro”, “Riva boia”, “Ilva = cancro”. Quelle scritte le conoscevamo tutte e tutti, le abbiamo viste centiniaia di volte e sapevamo che Cornigliano, come Taranto, era una zona profondamente inquinata. Bastava toccare con un dito le panchine della stazione, diretta dirimpettaia dello stabilimento, per rendersi conto che le polveri più o meno sottili si depositavano ogni giorno su tutto quello che di limitrofo c’era alla zona degli altiforni.
Ciò che dunque scrivono i giudici è l’atto di accusa a cui il padrone dovrà rispondere dopo che una sentenza popolare già era stata scritta sulle mura di Genova.
Una cosa ancora penso si debba dire e voglio scriverla chiaramente: c’è stato un gioco criminogeno, un tentativo sottile e perverso di mettere i lavoratori al centro di un vortice che coinvolgeva l’asse precario tra industrialismo, lavoro e ambiente. Come se i lavoratori fossero responsabili dell’inquinamento per via del loro lavoro e della necessità che questo rappresenta oggettivamente per oltre 10.000 persone e nuclei famigliari. C’è stato il meschino ancoraggio della richiesta di mantenere aperta l’Ilva con l’insensibilità sanitaria dei lavoratori: come se non fossero consapevoli dei rischi che loro per primi corrono andando ogni giorno nello stabilimento di Riva.
Questi tentativi di gettare la colpa addosso alle esigenze del mondo del lavoro sono state smascherate subito dal sindacato e anche dalle forze della sinistra. Potrà anche essere che nel corso degli anni i giochi sotterranei della parte padronale abbiamo frenato l’azione sindacale, ma non penso e non credo si debba dire che c’è una complicità del sindacato in tutto questo.
Se ci fosse, dovrebbero per primi i lavoratori denunciarla e ristabilire un equilibrio tra le parti.
La colpa di tutto è di una santissima trinità del mercato: Riva, produzione e profitto. Non cercate colpevoli dove non ce ne sono; fate piuttosto tutto il possibile per far conoscere quelli che realmente hanno voluto, senza alcuno scrupolo, la morte di persone, la morte del lavoro.

 

Marco Sferini

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