121011ivadi Alfonso Gianni
Malgrado le patetiche precisazioni del Ministro Grilli, siamo di fronte a una nuova manovra economica da parte del governo Monti per il valore di ben 11,6 miliardi di euro. Non proprio bruscolini in questi tempi di magra. Naturalmente il tutto viene motivato con la necessità di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013. Chi voleva la prova dell'assurdità e delle pesanti conseguenze sociali di questa norma introdotta in Costituzione, ora ce la ha di fronte.
Il punto essenziale del provvedimento governativo sta nella doppia manovra: abbassamento di un punto di due aliquote Irpef, quella al 23% e quella al 27%, mentre, anzichè scongiurare l'incremento dell'Iva, lo si eleva di un punto. Si dice che le due cose dovrebbero stare in equilibrio, ma è assai poco credibile che così effettivamente sia.

La riduzione dell'Irpef dovrebbe portare a un risparmio medio di circa 187 euro a persona su una platea di 30 milioni di contribuenti. Ma questo avverrebbe senza sostanziali differenze fra redditi alti e bassi. Infatti, in virtù del meccanismo progressivo a scaglioni, del taglio delle aliquote beneficeranno tanto i redditi fino a 28mila euro, quanto quelli fino a 75mila euro. Summum ius, summa iniuria.
Assai difficile è quantificare quale sarà l'aumento dei prezzi dovuto all'incremento di un punto dell'aliquota Iva. Esso, però, cade proprio nel momento in cui l'Istat rende noto che il potere d'acquisto dei salari è diminuito di un altro 4,1%. Come si sa l'incremento dei prezzi dovuto all'innalzamento dell'Iva riguarda l'intera platea dei consumatori. In astratto si potrebbe dire che colpisce quelli che hanno possibilità di consumare di più. In realtà è il contrario, specialmente se si esce dalla nuda statistica e si guarda alla realtà delle condizioni di vita. Per i redditi da lavoro dipendente che hanno già perduto così tanto potere d'acquisto, per la fascia accresciuta di poveri che popolano il paese, anche un modesto incremento dei prezzi può rivelarsi fatale e ridurre in modo vitalmente sensibile la loro capacità di consumo di beni essenziali.
Se aggiungiamo a questo quadro il rifiuto, ipocritamente nascosto dietro la foglia di fico del parere negativo espresso dalla ragioneria di stato, della soluzione del drammatico problema degli esodati privi di qualunque protezione e il contemporaneo rinvio di un anno della introduzione dell'Imu sugli immobili ad uso commerciale di proprietà della Chiesa, il carattere iniquo e persino provocatorio del provvedimento governativo appare in tutta la sua luce.
Intanto si annuncia una possibile conclusione del confronto sulla produttività. Si fa strada l'idea lanciata dall'economista Tito Boeri di togliere dai contratti collettivi nazionali di lavoro quel residuo di indicizzazione legata all'aumento dei prezzi valutati su scala europea, al netto dell'incremento di quelli energetici. Il che vorrebbe dire togliere ogni valore accrescitivo delle retribuzioni al Ccnl e lasciarlo solo ai contratti aziendali, per chi riesce a ottenerli. Sarebbe questo il risultato della brillante idea di collegare la retribuzione all'incremento della produttività, come se questa derivasse solo dal lavoro e non da un insieme di cose che riguardano l'organizzazione aziendale, del sistema produttivo e del funzionamento della pubblica amministrazione. In questo modo si capovolgerebbe l'intera storia della contrattazione sindacale.
In sostanza la strada del rigore porta a più recessione. Persino un giornale in sintonia con il governo come Repubblica non può non notarlo, e infatti Massimo Giannini scrive che di questo passo «l'Italia, come del resto la Spagna e in prospettiva la stessa Francia, ha ormai imboccato un sentiero che conduce ad Atene». Perciò Susanna Camusso dovrebbe organizzare lo sciopero generale e non limitarsi a minacciarlo.

Il Manifesto - 11.10.12

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