Congresso Prc Emilia-Romagna, 17 GIUGNO 2012
1. LA CRISI
1.1. I tratti generali della crisi
Quando abbiamo fatto lo scorso congresso regionale - era il novembre del 2008 – la parola “ crisi” stava rientrando nel vocabolario utilizzato dai politici e dai giornali italiani. Oggi, tre anni e mezzo dopo, è entrata nella quotidianità, andando ben oltre il circuito mediatico. Nel giro di pochi mesi quella gerarchia della paura che si era consolidata negli anni precedenti, a colpi di campagne “securitarie”, è cambiata radicalmente. Sono diventati maggioritari la paura di perdere il proprio posto di lavoro; la paura degli effetti generali della crisi sulla vita delle persone; la paura di non arrivare alla fine del mese. La crisi ha modificato non solo la condizione materiale di tante e di tanti, ma ha cambiato significativamente l’immaginario collettivo. Oggi siamo tutte e tutti vulnerabili e precari, consapevoli di esserlo. L’abbiamo detto da subito: per noi questa crisi non è certo né un fenomeno naturale e oggettivo, né un improvviso, clamoroso ed inspiegabile colpo di scena. Essa deriva da trent’anni e passa di controffensiva padronale, di ristrutturazione dei processi produttivi, di soffocamento del conflitto sociale, di una redistribuzione della ricchezza all’insegna non della giustizia sociale ma dell’ingiustizia sociale, dal basso verso l’alto; dall’assolutizzazione della logica della mercificazione. Negli ultimi 25 anni il trasferimento di ricchezza dai salari e dalle pensioni ai profitti, in Italia, è stato pari ad 8 punti percentuali sul Prodotto Interno Lordo, ovvero 120 miliardi di euro. Una cifra enorme. Questo vorrebbe dire che se i rapporti di forza tra capitale e lavoro fossero rimasti quelli di 25, 30 anni fa, i 17 milioni di lavoratori dipendenti presenti in Italia avrebbero oggi in busta paga 7mila euro tonde in più. Nel primo decennio del 2000, le retribuzioni italiane hanno perso rispetto alle retribuzioni medie europee quasi 13 punti percentuali: erano più 4 sopra le retribuzioni medie europee nel 2000, sono diventate meno 8 nel 2010. Ovviamente il quadro italiano negativo è il tassello di un modello di sviluppo globale basato sull’ingiustizia sociale crescente. Tra i primi anni ’90 e il 2007 l’occupazione è cresciuta nel mondo in media del 30%. Malgrado questo incremento, la quota dei salari sul Pil è scesa in media di 13 punti percentuali nell’America latina; di 10 punti in Asia e nei paesi del Pacifico; di 9 punti nelle cosiddette economie avanzate. I punti persi sono andati ai redditi da capitale.
La causa prima della crisi non è perciò la finanza e i suoi meccanismi perversi, come hanno provato a raccontarci; anzi la finanza e i suoi meccanismi perversi hanno per molti aspetti ritardato l’esplosione della crisi, rendendola al limite ancora più deflagrante. La causa prima della crisi è l’incremento esponenziale dell’ingiustizia sociale, che ha eroso progressivamente e inesorabilmente il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni; che ha esteso la precarietà e la frammentarietà dei percorsi lavorativi non solo dei giovani; che ha incrementato i meccanismi e i processi di esclusione sociale e ha indebolito brutalmente i meccanismi e le modalità della protezione sociale. Ingiustizia sociale che di fatto ha “bloccato”, o rallentato pesantemente, il processo di scambio tra economia e società. Possiamo tranquillamente dire che la crisi è stata provocata proprio da quelle politiche neo-liberiste celebrate vent’anni fa, quando crollò il muro di Berlino, come il paradiso in terra; celebrate come generatrici in automatico di ricchezza diffusa, pace, libertà e democrazia. Politiche neo-liberiste che, in questi decenni, sono state praticate, chi lo ha fatto in modo “estremo” e chi in modo temperato, praticamente da tutti i governi negli Stati Uniti, in Europa e in Italia; che sono codificate e prescritte dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Centrale Europea e dalla Commissione Europea; ed ora sono codificate anche nella nostra Costituzione con l’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio votato da questo Parlamento. Quelle stesse politiche liberiste che vengono di nuovo oggi proposte come la medicina per “guarire” dalla crisi e come l’unica possibilità per far riprendere l’economia, e che in realtà non fanno altro che riprodurre e amplificare i meccanismi e i processi di fondo della crisi. Basti pensare che sono stati spesi in questi anni, da parte dei governi occidentali, qualcosa come 14-15 trilioni di dollari pubblici per salvare le istituzioni finanziarie, mantenendo al contempo – anzi, incrementando – le disuguaglianze e iniquità sociali. Come abbiamo detto, quando si tratta dei lavoratori, dei pensionati, dei disoccupati, della sanità pubblica, del sistema pensionistico pubblico, i soldi non ci sono. Quando si tratta delle banche i soldi ci sono; eccome se ci sono. Per dare soltanto una qualche idea dell’entità delle risorse impiegate, possiamo dire che quei 14-15 trilioni di dollari avrebbero garantito, diversamente impiegati, 25-30 anni degli investimenti per raggiungere integralmente entro il 2015, ovvero entro l’anno convenuto, tutti gli otto Scopi del Millennio indicati dall’Onu per tutti i paesi interessati. Tre anni fa, quando eravamo sotto congresso regionale, c’era il governo Berlusconi; oggi c’è il governo Monti. In questi anni la condizione complessiva del Paese è regredita in modo preoccupante. Nel 2008 il tasso di disoccupazione era al 6,8%. Oggi siamo arrivati al 10%. Sempre nel 2008 l’indice generale della produzione industriale era al 102, 4; nel quarto trimestre del 2011 era registrato all’86,9. E dal 2008 ad oggi la capacità di spesa media delle famiglie italiane si è ridotta del 5%. Ma tutto questo non ha portato in alcun modo alla messa in discussione delle politiche praticate anche qui da noi in questi anni. Anzi, la caduta di Berlusconi, obiettivo perseguito dalle opposizioni politiche e sociali di sinistra, è avvenuta in seguito alla sfiducia dei poteri economici forti, nazionali ed internazionali, che lo hanno scaricato ritenendolo inaffidabile ed incapace di fare riforme strutturali di destra. Berlusconi è caduto da destra: la borghesia ha semplicemente cambiato la spalla su cui tenere il fucile. Per questo abbiamo detto che il governo Monti è peggio del governo Berlusconi: esattamente perché attua, in modo unilaterale e senza un particolare problema di consenso, politiche che puntano ad una costituzionalizzazione definitiva delle politiche liberiste; ad una riscrittura sostanziale e formale da destra dell’impianto normativo che regola i rapporti tra capitale e lavoro; ad una riscrittura da destra dell’impianto normativo che regola forme e modalità del sistema di protezione sociale. E’, potremmo dire, il degno governo ai tempi di una crisi che abbiamo definito in questi anni “costituente”, cioè un’occasione per le destre per ridisegnare in primo luogo il rapporto tra capitale e lavoro in senso regressivo e per abbattere definitivamente ciò che rimane del compromesso sociale tra le classi costruito nei primi decenni del dopoguerra ed entrato in una lunga crisi a partire dalla prima metà degli anni ’70. Emblematico il caso dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, da tempo nel mirino della destra economica e politica. Ce lo ricordiamo tutti: nel 2002 fu una mobilitazione clamorosa e straordinaria della Cgil, delle lavoratrici e dei lavoratori a fermare Berlusconi. Da allora, da quella sconfitta, Berlusconi non ci ha più riprovato. E’ arrivato il governo Monti, e in pochi mesi l’articolo 18 è carta straccia: oggi tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori sono licenziabili e, quindi, più ricattabili. Il governo Monti lo può fare anche perché la Cgil non ha costruito alcuna mobilitazione in grado di provare davvero a modificare i contenuti della riforma del mercato del lavoro di Monti e della Fornero; non si è posta cioè il problema di costruire una reazione all’altezza dell’offensiva messa in campo dalla destra. Non solo: il governo Monti è sostenuto da quella che era la principale forza di opposizione a Berlusconi, il Partito Democratico. Certo, possiamo anche aggiungere che il Paese è ulteriormente cambiato in questi dieci, quindici anni; che si sono ridotti gli anticorpi democratici, fiaccati da un attacco costante e quotidiano ai diritti; che l’opinione pubblica si è spostata a destra; che grandi questioni per cui ieri si riempivano spontaneamente le piazze oggi non mobilitano. Ma dobbiamo anche dire che di questo arretramento, di questo senso di sconfitta diffuso e “preventivo”, sono responsabili fortemente coloro che potrebbero opporsi, e invece non si sono opposti e non si oppongono. Il governo, oggi, non ha una vera, forte ed efficace opposizione politico-parlamentare: questo rende possibile a Monti l’espletamento del mandato conferitogli dal Presidente della Repubblica per conto del Fondo Monetario Internazionale, della Bce e di Confindustria.
1.2. La crisi in Emilia-Romagna
Come sta messa l’Emilia-Romagna nel contesto più generale della crisi?
Nello scorso congresso regionale avevamo messo in evidenza come negli anni precedenti fosse giunta a compimento, nella nostra regione, una sorta di “discontinuità storica”, di esaurimento del cosiddetto modello emiliano-romagnolo. Avevamo parlato di un allontanamento del tessuto economico e sociale della nostra regione da quella che economisti e sociologi hanno chiamato negli anni settanta e ottanta “l’Italia mediana” e di un’omologazione alle caratteristiche delle regioni più settentrionali. Avevamo messo in evidenza come, pur nell’esaurimento di quel modello, costruito su una connessione forte e virtuosa tra coesione politica e coesione sociale, fossero rimasti alcuni elementi significativamente positivi, quali ad esempio la spesa sociale e sanitaria; la qualità dei servizi sociali. E come, al contrario, l’Emilia-Romagna non avesse avuto nulla di virtuoso, o da proporre come modello, sul terreno delle politiche ambientali, territoriali, urbanistiche, della mobilità: la nostra regione fa parte della Pianura Piadana, ovvero di quella che è considerata la macro-regione più inquinata e congestionata al mondo. Avevamo messo in evidenza come, in particolare, le politiche liberiste sul piano economico e sociale e la precarizzazione del mercato del lavoro calate dal contesto nazionale ed europeo avessero accentuato e aggravato anche nella nostra regione elementi di ingiustizia e sofferenza sociale, spingendo così verso l’esaurimento del modello emiliano-romagnolo. Lo scavare di quella che definiamo “crisi” ha perciò prodotto, anche qui, un salto di qualità in negativo muovendo da tendenze e dinamiche regressive già esistenti ed operanti. C’è stata una potente accelerazione. Se è vero, ad esempio, che la nostra regione mantiene standard occupazionali quantitativi nettamente superiori all’occupazione media nazionale, è altrettanto vero che anche qui, come sappiamo bene, i tassi relativi alla disoccupazione e alla precarietà sono cresciuti in modo significativo e senza precedenti recenti. Nel 2008 il tasso di disoccupazione era al 3,2%; oggi viaggia tra il 5% e il 6%. Inoltre al 31 marzo 2011 i licenziati per esubero di personale iscritti nelle liste di mobilità erano 44.787; al 31 marzo 2012 erano 47.652. Ed è altrettanto vero che le caratteristiche generali del tessuto produttivo emiliano-romagnolo, basato su aziende di medie e piccole dimensioni, hanno fatto sì che l’economia regionale entrasse con ancora più facilità in una situazione di sofferenza. “Un sistema - per usare le parole dell’ultimo rapporto di Unioncamere Emilia-Romagna – basato sull’emersione di imprese leader che hanno fatto da traino ad un vasto sistema di piccole imprese attraverso un forte legame di sub-forniture”. L’organizzazione dei “mitici” distretti industriali della nostra regione, basata su piccole unità produttive, sulle esternalizzazioni, sul modello della “fabbrica a cielo aperto”, su uno sfruttamento massiccio delle risorse umane e sociali del territorio, sulla dipendenza in alcuni casi dai mercati esteri, ha mostrato tutta la sua fragilità. Tra il 2007 e il 2010 il saldo tra le imprese nuove, 78.000 circa, e le imprese che hanno cessato la propria attività, 70.000, è positivo. Ma non è positivo il saldo occupazionale, perché al segno positivo delle 8000 imprese in più corrispondono 2500 dipendenti in meno. Segno di una riorganizzazione del sistema produttivo regionale e dei mercati, sotto la crisi, che va nella direzione ulteriore della fragilità, delle imprese di piccole e di piccolissime dimensioni, e immaginiamo dell’abbattimento del costo del lavoro e della precarietà. E se nel 1981, posta la ricchezza per abitante a livello nazionale a 100, la ricchezza per abitante in Emilia-Romagna era 131; oggi, posta la ricchezza per abitante in Italia sempre a 100, la ricchezza per abitante in Emilia-Romagna è scesa a 117. La quota di ricchezza pro capite che separava l’Emilia-Romagna dal resto del Paese, a favore della prima, nel corso di circa trent’anni si è perciò dimezzata. Non è un caso se, nella nostra regione, in questi anni le ore di cassa integrazione ordinaria, straordinaria e in deroga sono aumentate percentualmente come in pochi altri territori regionali. Nel gennaio-marzo 2012 l’Emilia-Romagna, con le sue 18.093.311 ore di cassa integrazione, si collocava per ore annue complessive di cassa integrazione al 5° posto tra le regioni italiane, dopo Lombardia, Piemonte, Trentino e Lazio. Prima parlavamo di come la crisi abbia modificato l’immaginario collettivo, la percezione del presente e del futuro. Se questo è vero, in Emilia-Romagna possiamo allora parlare di un vero e proprio “shock” da crisi, proprio perché è stata aggredita la percezione diffusa di una protezione sociale forte, come si era soliti dire un tempo, “dalla culla alla tomba”. Una percezione che era rimasta più o meno intatta, per quanto il “modello” emiliano-romagnolo non esista più. Il tema centrale sta nella ricostruzione di politiche pubbliche economiche, industriali, sociali e ambientali forti in grado di costruire una controtendenza generale. Per questo per noi la costruzione dell’opposizione alle politiche del governo deve essere connessa necessariamente ad una piattaforma di fuoriuscita da sinistra dalla crisi. Vale per il Paese - anzi, se questo non avviene a livello nazionale non c’è nessuna possibilità di fuoriuscita dalla crisi; vale per la nostra regione, e proponiamo per questo di far partire - insieme alle altre forze della Federazione della Sinistra, della sinistra e a tutti i singoli che vorranno contribuire, un laboratorio programmatico delle politiche pubbliche in Emilia-Romagna per elaborare proposte di medio periodo e che si ponga l’obiettivo di definire un’idea, un modello di sviluppo di sinistra per l’Emilia-Romagna.
2. LE POLITICHE ISTITUZIONALI IN EMILIA-ROMAGNA
E’ impossibile, oggi, valutare il ruolo degli enti locali e delle Regioni senza considerare la morsa liberista in cui questi sono stretti. Oggi la “soggettività decisionale” degli enti locali e delle Regioni, come sappiamo, è drasticamente ridotta a causa di tagli delle risorse senza precedenti; del consolidarsi di meccanismi demenziali attivati per limitare e ridurre ulteriormente il taglio della spesa pubblica; dello scaricare una parte dei costi della crisi su quelle che una volta avremmo chiamato “le autonomie locali”; ovvero nuovamente sui cittadini, sulle famiglie, sui lavoratori. Questo produce una sofferenza e una difficoltà ancora maggiori in territori come il nostro, in cui il sistema delle autonomie locali ha garantito – con le sue prestazioni e con i suoi servizi - nei decenni scorsi quello che veniva definito “salario differito”, e che oggi potremmo comunque definire comunque un welfare locale di qualità. La “bussola”, per quanto ci riguarda rispetto alle esperienze istituzionali, con cui percorrere la possibilità o meno di fare e di mantenere alleanze di centrosinistra, sta in primo luogo nella possibilità di spazi e politiche di “resistenza” a questo tentativo di riorganizzare definitivamente in una direzione liberista il sistema delle autonomie locale. Vogliono Comuni che non gestiscano più l’organizzazione pubblica delle risposte ai bisogni sociali, in cui i servizi alla persona abbiano tariffe pari ai costi di mercato; vogliono Comuni che – pur di avere qualche risorsa in più – svendano il territorio alla prima multinazionale o al primo privato che propone interventi impattanti e dannosi per la salute dei cittadini e per l’ambiente. Laddove siamo in grado di costruire elementi significativi e visibili di controtendenza a questa direzione, e noi dobbiamo lavorare attivamente perché questo sia possibile, è giusta l’adesione e il nostro lavoro politico all’interno di amministrazioni di centrosinistra.
Pensiamo in particolare a:
- la difesa dei servizi sociali;
- il caratterizzare le politiche fiscali sul terreno della progressività e della differenziazione in base alle possibilità reddituali;
- l’impedire processi di privatizzazione e di svendita delle politiche pubbliche;
- l’impedire la svendita del territorio e il suo ulteriore consumo.
Laddove non vi sono questi spazi, è giusta e necessaria la scelta di percorsi autonomi e alternativi non solo alla destra, ma anche al Partito Democratico. Sapendo però, e di questo dobbiamo essere consapevoli, che non c’è collocazione elettorale o istituzionale che ci garantisca in automatico un consenso e la possibilità di essere visti come un riferimento. Non è un dato sufficiente né il partecipare al governo del territorio né il rompere con il Partito Democratico, pensando magari che questo automaticamente risvegli masse popolari in sonno. Il dato di fondo è che il nostro partito, se fa coincidere la propria attività e la propria presenza in un territorio con la presenza istituzionale (qualunque essa sia), non va da nessuna parte. La presenza istituzionale, quando c’è, va connessa alla costruzione di un lavoro politico e sociale collettivo sul territorio. Lavoro politico e sociale che spetta appunto a noi, non ad altri.
Lo stesso ragionamento va fatto a proposito della Regione, anch’essa “vittima” di politiche brutali di taglio della spesa e, perciò, strumento per penalizzare ulteriormente cittadini e lavoratori. Tanto il governo Berlusconi quanto il governo Monti hanno usato la mannaia, con l’obiettivo in particolare di ridurre la spesa sanitaria e la spesa sociale complessive. Nel triennio 2010-2012 la nostra Regione ha subito un taglio di trasferimenti statali di un miliardo di euro circa. Da questo punto di vista la Regione Emilia-Romagna ha saputo svolgere in questi anni ciò che dicevamo prima: un buon lavoro di “resistenza” rispetto perlomeno ad una parte significativa delle politiche liberiste praticate dall’alto. Pensiamo ad esempio alla visibilità, derivante anche dal ruolo di presidente della Conferenza delle Regioni di Errani, nell’opposizione esplicita dell’Emilia-Romagna ad alcune scelte politiche della destra di governo, anche quando sostenute nazionalmente dal Partito Democratico. Pensiamo a scelte e a politiche regionali concrete ma anche a forte impatto simbolico, come ad esempio – lo abbiamo già ricordato diverse volte – il finanziamento del fondo emiliano-romagnolo per la non autosufficienza, sostenuto con risorse superiori a quante ne hanno messe i governi in questi anni nel fondo nazionale per la non autosufficienza per tutto il Paese. Siamo al punto che nel 2012 la Regione mette 470 milioni di euro, mentre il governo Monti ha azzerato definitivamente il Fondo. Oppure pensiamo alle tante risorse della Regione utilizzate per finanziare la cassa integrazione in deroga (230 milioni di euro stanziati all’inizio dell’anno); risorse che hanno impedito, nel nostro territorio, che lavoratrici e lavoratori di aziende in crisi, esclusi dall’accesso agli ammortizzatori sociali normati nazionalmente, rimanessero da un giorno all’altro senza posto di lavoro e senza alcuna tutela. Cassa integrazione in deroga, ricordiamo, che il governo Monti ha cancellato con la controriforma del mercato del lavoro. O ancora, pensiamo al finanziamento, da parte della Giunta regionale, di un “Piano regionale di accesso dei giovani al lavoro, la continuità dei rapporti di lavoro, il sostegno e la promozione del fare impresa” al cui centro c’è il “fondo per l’assunzione e la stabilizzazione”, per cui sono stati stanziati venti milioni di euro e con cui sono sostenute soltanto quelle imprese che non hanno licenziato e che assumono a tempo indeterminato. Infine pensiamo al fatto che le indennità dei consiglieri regionali emiliano-romagnoli sono da tempo le più basse tra tutte le Regioni del Paese. Tutto questo ci fa dire che in questa regione c’è il “socialismo realizzato” o che tutto va bene? Ovviamente no. In primo luogo perché non condividiamo alcune, altre scelte significative. Nei prossimi mesi, ad esempio, arriverà alla discussione dell’Assemblea Legislativa il PRIT, ovvero il Piano Regionale Integrato dei Trasporti. Vi è un buon investimento sulla mobilità pubblica: in particolare la Regione mette 70 milioni di euro in più, ovvero la cifra tagliata dallo Stato. Ma in questo atto programmatorio sono comprese alcune opere infrastrutturali a cui siamo contrari e che si pongono in assoluta continuità con quelle politiche “storiche” che hanno congestionato la nostra regione. Come ad esempio la Cispadana: un’autostrada che attraverserà le province di Modena, Reggio e Ferrara, e che avrà l’effetto di incentivare e di incrementare la circolazione di auto. O il Passante Nord, a Bologna; o il terzo ponte sul Po in provincia di Piacenza. Oppure penso all’intreccio tra le aggregazioni interprovinciali e l’apertura ai privati nella gestione del trasporto pubblico; al ricorso ad appalti e subappalti, senza che vi sia un controllo pubblico efficace. O al fatto che chiediamo da tempo un vero e proprio intervento legislativo della Regione sul tema delle delocalizzazioni, ma su questo abbiamo riscontrato fino ad ora solo dichiarazioni di intenti da parte della Giunta e del resto della maggioranza. E’ evidente che per noi, inevitabilmente, stare dentro una coalizione non significa rimanere immobili come in una fotografia, non è un dato fisso e statico, ma significa proporre, confliggere, litigare e anche dissentire. Il secondo motivo per cui non possiamo dire né che c’è il socialismo né che tutto va bene è l’impatto “relativo” delle politiche regionali. Ovvero, anche quando queste sono positivamente in controtendenza, si contestualizzano per l’appunto in un quadro generale, normativo e politico, che appunto va spesso in tutt’altra direzione. In questa legislatura, iniziata dal 2010, la Regione ha assunto alcune scelte che, in un qualche modo, interloquiscono con le criticità strutturali che anche noi abbiamo posto in questi anni sul terreno delle politiche ambientali. Pensiamo all’intervento che ha disciplinato il fotovoltaico, limitando il consumo del terreno agricolo e privilegiando fortemente l’istallazione di impianti sui tetti. Siamo l’unica Regione ad aver posto vincoli oltre la normativa nazionale. Pensiamo ai vincoli posti, attraverso le “Linee guida per le rinnovabili”, alla “collocazione” delle fonti energetiche alternative: vincoli che non impediscono a priori la costruzione di impianti che noi contrastiamo e a cui ci opponiamo, ma che sono i vincoli più “spinti” e più stringenti che una Regione possa mettere. E anche su questo l’Emilia-Romagna è stata l’unica Regione a fare un intervento del genere. Queste misure perciò, che pure sono positive e coerenti con la parte più avanzata del programma con il quale la coalizione di centrosinistra regionale si è presentata alle scorse elezioni, si calano in un “far west” determinato dall’assenza di un Piano Energetico Nazionale e con politiche storicamente “accumulatesi” in questo territorio inquinanti e congestionanti. Una cosa simile possiamo dire a proposito delle politiche contro la crisi: la giunta Errani ha messo in campo scelte più positive che negative, ma che non sono in grado di toccare i meccanismi sostanziali che hanno generato la crisi. Non è possibile il superamento della crisi in una regione sola: è necessaria la costruzione di politiche europee e nazionali pubbliche basate sulla giustizia sociale e sulla ridistribuzione dall’alto verso il basso. Diciamo questo per ribadire che il nostro sguardo deve essere consapevole della complessità: il nostro giudizio di merito positivo, quando è positivo, su questa o su quella scelta politico-istituzionale deve connettersi ad un quadro più generale basato sull’iniquità e sull’ingiustizia sociale che non può essere modificato nel breve periodo o con politiche locali. Per questo quello che possiamo provare a fare è aprire e mantenere spazi di “resistenza politico-istituzionale”, sapendo che non ce la caviamo se facciamo coincidere il partito con l’attività politico-istituzionale. Vi proponiamo di preparare, per settembre, un seminario regionale, anche in questo caso vedremo se come Prc o come Federazione della Sinistra, in cui fare il punto sul merito delle politiche istituzionali regionali, approfondire questa discussione, e in cui avanzare proposte sul breve, medio periodo. Su questo fronte, però, non ci sono soltanto la Regione o gli enti locali; non ci sono processi politico-istituzionali solo regionali o locali o nazionali. Anzi, in questi ultimi decenni e in modo sempre più forte, hanno preso piede processi e modalità di riorganizzazione interterritoriali, interprovinciali e interregionali, che oltretutto non trovano un livello decisionale e democratico corrispettivo. Facciamo l’esempio più evidente e rilevante: le multiutilities. Le multiutilities, per come sono ora nella nostra regione, sono conseguenti ad un processo di riorganizzazione dei servizi pubblici locali interprovinciale (Hera) e interregionale (Iren). Un processo che non è stato soltanto quantitativo, ovvero basato sull’aggregazione di diversi territori, ma qualitativo e sostanziale in negativo, basato sull’apertura progressiva ai privati, sull’adozione di modelli e logiche privatistiche e aziendalistiche, sulla quotazione in Borsa, sulle esternalizzazioni, sulla compressione del costo del lavoro, sull’indebolimento dei presidi territoriali; sulla cancellazione non tanto della democrazia partecipata, ma anche della democrazia e basta, in cui giunte e consigli comunali non decidono e, spesso, non sanno nulla; potremmo definire complessivamente tutto questo un allontanamento radicale dal concetto di “politiche pubbliche” e di “beni comuni”. Ora c’è un nuovo passo, in stretta continuità con quanto avvenuto in questi anni e che segna un’ulteriore accelerazione, anche qualitativa: il progetto di una multiutility del nord, che – riproducendo e ampliando le medesime dinamiche delle aggregazioni precedenti – punterebbe ad unire tutte le multiutilities del nord. Iren, anche se non lo ha discusso nessuno, entrerebbe da subito in questo processo, mentre Hera non aderirebbe, perlomeno da subito. Ci opponiamo a tale nuova aggregazione e chiediamo un’inversione di tendenza che vada nella direzione delle politiche pubbliche e dell’assunzione dei nodi dell’acqua, della gestione dei rifiuti e del trasporto pubblico come, appunto, beni comuni a gestione pubblica. E’ incredibile, e non vale soltanto per il nostro territorio regionale: un anno fa proprio in questi giorni, abbiamo vinto – insieme a tanti altri – i referendum sull’acqua e sui servizi pubblici locali con il voto della maggioranza assoluta delle cittadine e dei cittadini. Una vittoria clamorosa, che ha ribaltato anni di bombardamenti ideologici sulle privatizzazioni e che ha messo in evidenza la possibilità anche in questo Paese di sconfiggere sul terreno del consenso i sostenitori del liberismo. Ma una vittoria a cui non è corrisposto un cambiamento sostanziale nelle politiche, dimostrando concretamente che, per molti aspetti, viviamo ancora in una “democrazia bloccata” e che esiste un problema grande quanto un paese o quanto un continente, e si chiama “sovranità decisionale” o, se volete, la possibilità di autodeterminarsi. E’ come se il giorno dopo il 12 maggio 1974, ovvero la grande e storica vittoria referendaria contro l’abrogazione della legge sul divorzio, comunque non fosse stato possibile divorziare. Non c’è stato l’abbattimento della remunerazione del 7% sui capitali investiti da parte dei privati e non vi è stato l’avvio di processi di ripubblicizzazione dei servizi pubblici locali. E’ per questo che, opponendoci al progetto della multiutility del nord, non chiediamo il mantenimento dell’esistente ma una riorganizzazione e un mutamento nella direzione e in attuazione della vittoria referendaria. Chiediamo cioè, in sintonia con quanto chiedono i comitati per l’acqua pubblica, lo scorporo dell’acqua e della gestione rifiuti e la costituzione di aziende pubbliche municipalizzate e consorzi intercomunali, con l’obiettivo primo di restituire ai territori e alle comunità territoriali la gestione dei beni comuni.
3. UNIRE LA SINISTRA: UN CAMMINO DIFFICILE E NECESSARIO.
Abbiamo quindi messo in fila alcuni ragionamenti: sulla crisi, sulla necessità di costruire politiche pubbliche di fuoriuscita da essa; sul nostro ruolo negli enti locali e in Regione per contrastare le politiche liberiste locali e per sviluppare e difendere spazi di “resistenza politico-istituzionale”; sulla necessità di declinare un programma regionale di medio periodo in cui affermare la nostra idea di Emilia-Romagna. Noi donne e uomini comuniste e comunisti del tempo presente, però, non possiamo e non dobbiamo porci solo il tema del “cosa”, del merito, dei contenuti – aspetti ovviamente centrali e determinanti – ma anche del “come”, di quali processi politici, di quali modalità inclusive e aggregative, di quali forme della politica. “Cosa” e “come” devono camminare intrecciati, c’è l’uno e c’è l’altro. Al congresso di Chianciano del 2008 abbiamo respinto il tentativo non solo di sciogliere un partito e di cancellare un simbolo, Rifondazione Comunista e la falce e il martello, ma il tentativo più generale di rompere senza se e senza ma con il percorso della sinistra di alternativa. E’ stata una battaglia politica giusta, vitale e faticosamente vinta in sede congressuale; ma non indolore. Ci è costata una nuova scissione, l’hanno fatta altri, non noi, ma questo non cancella il danno - e ha innescato in tante compagne e compagni senso di sconfitta, pessimismo politico, distanza dalla politica. Aver impedito lo scioglimento di Rifondazione Comunista, e quindi l’aver tenuto “eroicamente” in piedi la possibilità di una sinistra politica di alternativa e anticapitalista in questo Paese, non significava e non significa però pensare di poter attraversare la lunga notte della crisi della politica e della sinistra da soli; non significava e non significa l’autosufficienza. Abbiamo dovuto fronteggiare nella fase immediatamente successiva a Chianciano una sorta di “coazione a ripetere” di quel congresso: la contrapposizione tra il nostro progetto politico e l’idea dell’unità della sinistra come “tabula rasa” delle appartenenze, dei percorsi e delle bandiere pre-esistenti. Sei di Rifondazione Comunista? E allora sei contro l’unità della sinistra, perché vi contrapponi la tua appartenenza, i tuoi simboli, i tuoi apparati. Alla base della nostra crisi di consenso di questi anni non c’è stato soltanto il fallimento dell’alleanza politica e programmatica con l’Unione, e la rottura con i movimenti e le grandi aspettative popolari attorno a quella esperienza di governo, ma anche la nostra difficoltà nel dare una risposta adeguata alla domanda di unità a sinistra che tante e tanti pongono. La lista anticapitalista prima, il percorso della Federazione della Sinistra poi, hanno rappresentato e rappresentano passi, finalmente, in controtendenza con le divisioni e le scissioni che hanno accompagnato la storia recente della sinistra. Percorsi che rispondono indubbiamente ad un problema quantitativo, elettorale, simbolico, politico: ovvero provare a mettere insieme una “massa critica” a sinistra, a partire da chi ci sta (noi, le compagne e dai compagni del Pdci, le compagne ed i compagni di Socialismo 2000 e Lavoro e Solidarietà), e praticare una semplificazione elettorale, contro il proliferare sulle schede delle falci e martello. Pensiamo se a queste elezioni amministrative, ad esempio, ci fossimo presentati noi come Rifondazione Comunista, e il Pdci come Pdci: saremmo sostanzialmente rimasti fuori dai consigli comunali indipendentemente dalle collocazioni elettorali scelte. Il progetto della Federazione della Sinistra risponde all’esigenza di dare stabilità al perseguimento di questi obiettivi, attraverso la costruzione di una soggettività politica appunto federativa, e quindi plurale, e che punta a mettere in connessione – e non a cancellare - le diverse forze che vi aderiscono. Non risponde – questo dobbiamo dircelo - alla domanda più complessiva, più diffusa e di profondità che c’è di unità a sinistra, non risolve in sè la questione, ma è un passo che ci ha consentito di andare oltre la solitudine del Prc. Il nostro cammino non è finito: dobbiamo lavorare perché in tutti i territori il percorso della Federazione della Sinistra prosegua e si radichi – sapendo (e anche di questo dobbiamo essere consapevoli) che in alcuni territori non vi sono solo problemi organizzativi, ma anche problemi politici che rendono localmente difficile la sua presenza – e perciò non è sufficiente un approccio diciamo “organizzativista”, un generico e indistinto “fatelo!” perché in alcuni casi vi sono differenze politiche rilevanti tra i soggetti che compongono la Fds e che non sono superabili nell’immediato. Deve essere però, ovunque, il nostro obiettivo. La Federazione della Sinistra va intesa non come un punto di approdo, ma come un punto di partenza. Si tratta di costruire percorsi unitari con tutte le forze della sinistra politica, sia sul terreno della mobilitazione e dell’iniziativa sia sul terreno elettorale. Spesso e volentieri non abbiamo risposte positive; dobbiamo insistere e proseguire, perché noi stessi facciamo un passo in avanti in più se ci facciamo costruttori e “amplificatori” attivi di quella domanda di unità. Non si tratta solo di unire sommando, proprio perché la somma delle forze della sinistra a sua volta non basta, rischia di riprodurre l’idea di una semplice somma degli esistenti e degli apparati. Si tratta di provare ad attivare o a riattivare le tante compagne e i tanti compagni che non hanno tessere di partito, ma che sono attivi – chi nell’Anpi, chi nei comitati per l’acqua pubblica, chi nei circoli de il Manifesto, chi nei centro sociali, chi nei movimenti, chi nel sindacato (nella Fiom, nella Cgil, nei sindacati di base) chi facendo la Rsu nel proprio luogo di lavoro - per fare qualche esempio. Se vogliamo fare questo dobbiamo essere in grado di trovare forme e modalità inclusive aperte e nuove, mantenendo e sviluppando l’ispirazione federativa e non riproducendo teorie suicide di nuove “tabula rasa”: è una discussione in gran parte da fare, ma che va fatta. Per questo proponiamo di lanciare nei territori assemblee, forum, laboratori – non importa la definizione precisa che scegliamo – aperti a tutta la sinistra politica e sociale di quel territorio; aperti alle organizzazioni della sinistra e ai singoli interessati. Partendo dai territori apriamo, sperimentiamo, ricerchiamo. La costruzione dell’unità della sinistra politica, partendo dalla Federazione della Sinistra; l’inclusione di quella che possiamo definire sinistra sociale, sinistra diffusa, sinistra senza tessera assumendo come terreno primo di lavoro comune l’organizzazione dell’opposizione al governo; il coniugare questo lavoro unitario con le coordinate della sinistra di alternativa, e non della sinistra del centrosinistra, e lavorare perché quelle coordinate diventino egemoniche; il connettere politica e agire sociale: tutto questo rappresenta la bussola, il “cuore” del progetto della rifondazione comunista.
4. IL PRC: UN PARTITO IN MOVIMENTO.
La ricerca di un’unità ampia della sinistra non rende meno necessaria l’esistenza di Rifondazione Comunista. E l’esistenza di Rifondazione Comunista ha reso possibile, in questi anni, la prosecuzione della presenza della sinistra politica di alternativa nel nostro Paese; ha impedito che una storia si chiudesse. Questi sono stati anni di resistenza, in cui abbiamo fatto i conti frontalmente con la crisi del rapporto tra politica e società, con la crisi della sinistra, con i nostri errori. Non siamo rimasti fermi, ma abbiamo provato (e stiamo provando) a definire ed aggiornare la cultura politica e le prassi della rifondazione comunista ai tempi della crisi. Non è questa la sede per un bilancio politico di respiro nazionale sul nostro percorso da Chianciano in avanti: il congresso nazionale l’abbiamo già fatto qualche mese fa. Vogliamo invece fare un ragionamento che riguarda noi, comuniste e comunisti del Prc dell’Emilia-Romagna. Al congresso di tre anni e mezzo fa, eravamo un “altro” partito. Allora eravamo reduci dalla sconfitta delle politiche del 2008 con la Sinistra Arcobaleno: una sconfitta storica, che ha sancito l’esclusione della sinistra dal Parlamento. Avevamo un’altra consistenza organizzativa. Nel 2008 il nostro partito era, per quanto sconfitto, in continuità con il partito dell’ultimo decennio, degli ultimi 8-9 anni. Avevamo un quotidiano in tutte le edicole. Avevamo sì un calo progressivo annuo di iscritti e di voti in termini assoluti, ma il corpo del partito era quello. Questi anni di resistenza , di difficoltà, di fatica e anche di sconfitte hanno cambiato il nostro partito; il nostro gruppo dirigente, come pure il corpo militante e degli iscritti, si è “accorciato”, ristretto. Sempre di più oggi gli stessi compagni e le stesse compagne si trovano magari a fare i dirigenti locali del proprio circolo, i volantinatori, i raccoglitori di firme, i componenti del Cpf, i componenti della segreteria provinciale, e magari i componenti del comitato politico regionale. Con il particolare tra l’altro che non puoi fare tutto, e se devi fare una rinuncia, magari scegli di non partecipare alla riunione più lontana. Si tratta di provare a gettare le basi per una qualificazione politica, per una crescita del nostro gruppo dirigente “largo”, diffuso, e per un suo ampliamento. Per fare questo, ci vuole in primo luogo un gruppo dirigente regionale presente, preparato e determinato. Si tratta di definire un nuovo “patto” tra livello regionale e federazioni sul cosa fare, su come in particolare il regionale possa essere un supporto, un aiuto ai territori. Ovviamente l’oggetto del livello regionale è la costruzione e la verifica di una linea politica riguardante i processi e le scelte istituzionali della Regione, ma non è solo questo. Proponiamo in primis un investimento e una sperimentazione politica con le federazioni su questi due aspetti:
- La formazione. Pensiamo che ci sia bisogno di una formazione finalizzata a dare a più compagne e a più compagni possibili quella che una volta si sarebbe chiamata una “cassetta degli attrezzi” comune. Il che non significa, ovviamente, pensare che i grandi classici non servano a niente; significa usarli e attualizzarli per capire l’oggi. Facciamo alcuni esempi. Quanto conosciamo i processi e i meccanismi economici, politici e sociali che stanno alla base della crisi? Quanta capacità abbiamo di leggere quegli stessi processi e quegli stessi meccanismi della crisi nel nostro territorio? O ancora: in questi anni, indubbiamente, Rifondazione Comunista è stata più presente, ha investito di più nelle lotte. Si pone però, spesso e volentieri, il tema del passaggio da una nostra presenza un po’ “sloganistica” e genericamente solidale nelle lotte delle lavoratrici e dei lavoratori ad una presenza “qualitativa”, dinamica, “competente”, in grado di proporre, di farsi ascoltare. E pensiamo anche al fatto che noi non abbiamo lo stesso bagaglio di esperienze sociali e politiche. Ad esempio, chi di noi si è fatto gli anni ’60 e gli anni ’70 è cresciuto in una fase della storia italiana fortemente politicizzata, in cui il conflitto sociale era molto visibile e presente e in cui chi militava in un partito della sinistra, in un sindacato, in un comitato, era in un qualche modo “alfabetizzato” alle lotte in automatico. Chi è cresciuto successivamente è cresciuto in una fase opposta, basata sulla negazione del conflitto sociale e sull’analfabetismo delle lotte. Stiamo schematizzando, ovviamente. Anche su questo, però, avvertiamo la necessità di una “cassetta degli attrezzi” comune: come sono cambiate le vertenze e le lotte al tempo della crisi? Ecco, la proposta è di preparare dei percorsi formativi rivolti al gruppo dirigente regionale, ai gruppi dirigenti provinciali, ai segretari di circolo, per darci coordinate comuni nell’agire politico. Percorsi che vanno discussi collegialmente e vanno preparati, proprio finalizzandoli all’obiettivo della qualificazione politica e dell’allargamento dei gruppi dirigenti;
- Il secondo riguarda l’organizzazione del livello regionale. Dobbiamo provare a fare meno riunioni regionali, e più riunioni interprovinciali, aggregando magari 3 o 4 federazioni tra loro confinanti. Se vogliamo coinvolgere, includere, allargare, dobbiamo provare a fare così. E’ chiaro che ci deve essere la condivisione e la collaborazione attiva delle federazioni.
Avanzate queste coordinate possibili della riorganizzazione del nostro lavoro politico, sottolineiamo alcune priorità sul terreno dei contenuti generali del nostro lavoro necessarie per organizzare il regionale nei prossimi mesi e nei prossimi anni; per darci un mandato.
1. La costruzione di politiche e di iniziative contro la crisi. Come dicevo prima, dobbiamo rendere permanente la nostra elaborazione sul rapporto tra l’Emilia-Romagna - il nostro territorio regionale - e la crisi;
2. I beni comuni, ovvero la necessità di politiche di ripublicizzazione di servizi fondamentali per la vita delle donne e degli uomini. Non c’è solo l’acqua, come abbiamo detto, e in più c’è un “pezzo” della nostra analisi “consolidata” dell’Emilia-Romagna: la nostra valutazione sulla debolezza “storica” delle politiche territoriali, ambientali, urbanistiche. Anche su questo terreno, perciò, la nostra elaborazione e la definizione di un “ventaglio” di proposte devono proseguire;
3. La capacità da parte nostra, come regionale, di mettere in rete le lotte e le vertenze delle lavoratrici e dei lavoratori, di supportarle, di fare l’inchiesta, di connetterle ai processi più generali della crisi;
4. L’antifascismo. Per noi, ovviamente, l’antifascismo è un valore attuale e fondativo; un altro “pezzo” della rifondazione comunista. Si tratta di declinarlo; di costruirci un lavoro politico. In questi mesi, in tanti territori della regione, le organizzazioni neo-fasciste e neo-naziste hanno organizzato iniziative e presidi. Noi ci siamo mobilitati ovunque per impedire che manifestassero. Dobbiamo proseguire, lanciando un’iniziativa unitaria rivolta a tutta la sinistra contro i neo-nazisti e i neo-fascisti. Inoltre in questi ultimi anni tanti giovani, tante ragazze e tanti ragazzi, hanno scelto di impegnarsi politicamente non in un partito, ma nell’Anpi. Si tratta di qualificare politicamente e di organizzare la nostra presenza appunto in un’associazione come l’Anpi;
5. L’antimafia. Ormai non c’è più nessuno che nega la presenza e il radicamento, nell’economia e nella società emiliano-romagnola, della criminalità organizzata. Vale per il traffico di droga, vale per le bische e per la gestione delle macchinette nei bar, vale in settori quali l’edilizia e la logistica, con le loro giungle di esternalizzazioni, appalti, sub-appalti, società prestanome e finte cooperative. Anche in questo caso dobbiamo provare, assieme alle altre forze della sinistra politica e sociale, a costruire un’inchiesta sulle mafie in Emilia-Romagna e una campagna di lotta antimafia.
6. La lotta contro la violenza degli uomini sulle donne; contro il femminicidio. E’ un ambito di lavoro su cui fare passi in avanti, caratterizzarci, costruire iniziativa politica. Anche in questi ultimi giorni, proprio in Emilia-Romagna, ci sono stati omicidi di donne da parte del marito, dell’ex convivente, del fidanzato. Questo avviene perché, spesso e volentieri, gli uomini si ritengono i proprietari della vita delle donne, e ogni manifestazione di autonomia e di indipendenza viene percepito come un attacco alla propria autorità e mascolinità. Questo deve diventare un terreno comune di lavoro per le compagne ed i compagni;
7. Il partito sociale, attraverso cui provare a costruire interventi e
risposte concrete ai bisogni sociali; attraverso cui affiancare alle parole, che non mancano mai nelle nostre riunioni, anche le pratiche.