di Claudio Ortale*

 

Da tempo si è ripreso a parlare di partecipazione e della necessità di ripensare alle regole che legano la logorata democrazia rappresentativa alla cosiddetta democrazia partecipativa.

Già alla fine degli anni novanta le esperienze di Seattle e poi i seguenti Forum mondiali di Porto Allegre avevano rianimato un’attenzione generale sulla necessità di ripensare il modello di democrazia rappresentativa, adottato in buona parte del mondo subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. La scelta fatta da varie nazioni di dotarsi di Costituzioni democratiche, così come deciso anche in Italia, che tenessero al centro i principi di eguaglianza, giustizia sociale, diritto al lavoro, alla salute, alla casa, all’istruzione e soprattutto di subordinare l’iniziativa privata all’interesse collettivo, ha permesso per un lungo periodo di garantire un discreto rapporto tra rappresentanti e rappresentati, tra eletti ed elettori. In tutto questo il ruolo dei Partiti, dei sindacati, del mondo della cooperazione e dell’associazionismo ha consentito, almeno sino all’instaurarsi del ventennio berlusconiano, di avere una continua interazione tra i diversi soggetti che, pur nell’avvio della crisi del sistema dei partiti, riusciva ancora a vincolare buona parte delle scelte degli eletti ai vari livelli nelle istituzioni (Parlamento, Regioni, Provincie, Comuni, Municipi e Circoscrizioni) e quindi dei partiti ad essi collegati, alla volontà popolare che di volta in volta emergeva nella società o che comunque creava un effetto decisivo sulle azioni e decisioni seguenti da parte dei designati. Basti pensare alla scelta nel 1984 di difendere la scala mobile che portò l’allora Partito Comunista Italiano ad una evidente esposizione ed impegno diretto, sia con i propri gruppi parlamentari sia con il proprio gruppo dirigente, per la difesa di uno strumento che ancora oggi avrebbe una sua funzione decisiva e di tutela per milioni di dipendenti, alla luce delle gravi azioni contro il mondo delle lavoro portate avanti con le ultime manovre varate da Berlusconi fino all’autunno scorso ed ora da Monti. Oggi, dopo un lungo lavoro fatto per avvelenare le falde acquifere delle coscienze e rendere così lecito tutto quello di cui solo qualche tempo fa ci si sarebbe inevitabilmente vergognati di sbandierare (ricchezza, prostituzione, evasione fiscale, appartenenza sfacciata ad una delle varie caste…), la possibilità di rimettere linfa nuova nei percorsi sempre più stretti e sofferti della democrazia rappresentativa viaggia fondamentalmente sulle esperienze di difesa dei beni comuni che negli ultimi anni, grazie alla spinta dei movimenti per l’acqua pubblica e alla meravigliosa vittoria in questo come negli altri tre quesiti referendari, sono diventati sempre di più un possibile antidoto sociale e politico alla caduta verticale di credibilità delle assemblee elettive ai diversi livelli, quindi dei partiti, e delle storiche organizzazioni sindacali che dopo decenni di concertazione non riescono neppure a difendere efficacemente l’articolo 18 e quindi i loro iscritti. Una possibilità che parte nuovamente dal basso, se non fosse ricondotta a semplici visioni locali od alla solita critica tout court dei partiti (compresi quelli che come noi continuano a opporsi seriamente da sinistra e senza scranni in Parlamento alla deriva dell’omogeneizzazione delle forze politiche) che poi trova sostanza, guarda caso, nel garantire una o più poltrone a qualcuno che diceva, fino ad attimo prima, che i partiti sono ormai gusci vuoti da buttare nel secchio della Storia e con essi, chiaramente, anche le conquiste sociali del Secolo breve. No, se si vuole riproporre un nuovo girotondo, stavolta condito da un po’ di sindaci alla ricerca di reti per poter creare liste elettorali che troppo spesso si risolvono in comitati elettorali sotto altre spoglie, non siamo d’accordo e credo che si perda molto di quella nuova linfa generata dalle importanti lotte sui beni comuni (acqua, energie rinnovabili, rifiuti zero, ripubblicizzazione dei servizi pubblici…) che continueremo a portare avanti insieme ai diversi comitati. Non basta indicare la caduta di gradimento dei partiti rispetto all’opinione pubblica per indicarne il loro superamento e soprattutto non si può generalizzare il giudizio, rischiando così di buttare il bambino insieme ai panni sporchi. A Roma abbiamo sperimentato per quasi due anni l’esperienza di Roma Bene Comune che riuscì a tenere dentro svariate esperienze e senza ricreare il vecchio e solito inter gruppi degli anni andati. Le battaglie contro il Bilancio, per il diritto all’abitare, contro la precarizzazione del lavoro nel sociale, per la difesa ed il rilancio dei servizi pubblici, contro il saccheggio del territorio e il noto masterplan a Tor Bella Monaca, contro la privatizzazione dei nidi pubblici e per la chiusura della discarica di Malagrotta… Tutte queste ed altre ancora sono state le uniche e concrete forme di opposizione visibile nella città di Roma governata da Alemanno. Ora, dopo lo stop a questa importante esperienza, conseguente ai fatti accaduti alla manifestazione nazionale del 15 ottobre a Roma,  il forte bisogno di riprendere in mano un percorso di democrazia partecipativa nella città di Roma ha generato alcune importanti realtà nei diversi quartieri e municipi. A Roma nord la proposta per un Municipio 19 come Bene Comune, avviatasi alla fine del mese di novembre e giunta alla sua terza assemblea pubblica con incontri  svoltisi nei diversi quartieri del municipio, vede la partecipazione attiva e numerosa di realtà associative, comitati di quartiere, esponenti sindacali e del mondo della cooperazione che, insieme ai nostri compagni presenti, costruiscono un percorso attivo che parte dalla critica delle forme di democrazia rappresentativa e ridiscute le forme della democrazia diretta così come le abbiamo conosciute sinora. Si guarda alla questione locale ma senza dover rischiare di avvitarcisi sopra. Si criticano duramente le forme ed i limiti dell’amministrazione, a partire da quella attuale dei municipi, ma senza ritenere che la fine dei partiti sia la mano santa per fare guarire la democrazia nel nostro paese. Soprattutto, si discute di quali nuove forme di democrazia locale debbano segnare la strada del cambiamento e come ripensare in tal senso i diversi territori e quartieri che compongono aree municipali ormai piene di insediamenti abitativi, dove troppo spesso il ricorrere al consigliere amico per risolvere un problema diventa la pratica da usare se si conosce qualcuno. Serve andare oltre e creare dei nodi che possano davvero generare una nuova rete per la democrazia partecipativa, sapendo che la sfida non è affatto semplice e troppo spesso è più facile ricorrere ai vecchi metodi gattopardeschi, cambiando tutto per poi non cambiare niente. Democrazia vuol dire partecipazione.

 

* Responsabile Partecipazione PRC

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