di Marco Sferini

Il voto espresso dal Senato sull’emendamento di PDL e Lega Nord al testo di riforma costituzionale inerente il semipresidenzialismo è un segno che non va sottovalutato. Eppure i commentatori politici e giornalistici dicono che non c’è da preoccuparsi, che la trasformazione della repubblica parlamentare in una semipresidenziale non solo non è all’ordine del giorno, ma è semmai subordinata ad un’altra riforma che, invece, viene sentita come essenziale, necessaria e da fare subitaneamente: la riforma elettorale.

Non ha dubbi il PD, non li ha Casini e nemmeno il resto del Terzo Polo. Ma intanto sulla modificazione della struttura della Repubblica i voti di PDL e Lega uniti bastano per far passare l’emendamento, mentre PD, IdV e terzopolisti escono dalla sala di Palazzo Madama e si rifugiano su un mediocre Aventino.
Gli Aventini non mi sono mai piaciuti. Dalla loro storia non è nato mai nulla di buono se non delle grandi analisi distorte e contorte, delle minimizzazioni di quanto accadeva e delle sottovalutazioni apertamente ingenue, ma forse anche impossibili da evitare in un dato contesto storico, politico e sociale.
Sta di fatto che si riforma l’asse della vecchia Casa delle Libertà non su un punto di un disegno di legge qualsiasi, di valore generico, ma sulla modifica della Costituzione. E, entrando ancora di più nel merito, questa saldatura si forma proprio mentre la crisi economica si accentua nel valore specifico dello spread, in questa altalena tesa sempre al rialzo del differenziale tra i titoli di stato italiani e tedeschi per il cui abbattimento era stato chiamato dalla BCE e dal Quirinale il professor Monti e che, invece, sembra imprigionato nel giochetto degli speculatori continentali…
Non penso sia esasperazione di un episodio marginale questa paura che sento, questo timore che, dietro lo scambio della legge elettorale da riformare, potrebbe magari passare anche il semipresidenzialismo: corretto, rivisto, adattato al nostro Paese. Le direbbero in gran quantità le più mature menzogne per giustificare un passaggio di questo genere dalla centralità del Parlamento a quella della figura del governo e del Presidente della Repubblica eletto dal popolo.
Alfano forse fa propaganda. Ma a chi? Al Partito Democratico? Sembra non abbia orecchie per ascoltare (per fortuna) su questo frangente. Al Terzo Polo? Siamo nella stessa situazione del PD. Di Pietro, nemmeno a parlarne…
Forse il messaggio che si vuole mandare al Paese è che per risolvere la crisi generale, economica, politica, sociale, serve il grande leader eletto dal popolo, il “presidentissimo”; serve, insomma, la figura che oggi manca nella Costituzione e che non esiste perché il Parlamento resta sovrano e indipendente da ogni potere, e da la fiducia al governo che viene scelto dal presidente del Consiglio incaricato dal Capo dello Stato.
E’ un domino: caduta una pedina, cadono tutte. Molto spesso ho discusso sulla figura dell’ “uomo forte”: mi è capitato di convenire con molte compagne e compagni ed amici che questo nostro Paese ha sempre sentito il bisogno di un “conducator”, di un uomo a cui affidarsi mani e piedi, cervello e stomaco.
E ogni volta che ragionavo su questo, mi veniva alla mente – come spesso mi capita – una canzone, questa volta del Canzoniere di Lotta Continua. Saranno stati gli anni ’70 e i giovani di LC cantavano “Fanfascismo”, riferendosi al “piccolo duce, grande cervello”, quell’Amintore Fanfani che, pure, non era il peggio del peggio della vecchia Balena Bianca. Autoritario, con la vocazione del tutto personale a ricoprire la carica della presidenza della Repubblica, la statura bassa dell’uomo di governo e di potere veniva canzonata così da Fausto Amodei: “All’armi, all’armi, all’armi fanfascisti. A noi ci fan fanfare un presidente, e noi lo fanfaremo a tutti i costi colle teorie degli estremismi opposti o della maggioranza silenziosa.”. Il tutto sul motivetto della triste fascistissima “All’armi siam fascisti, terror dei comunisti”.
Fanfani non ce la fece a diventare Presidente della Repubblica, e fino ad oggi tutti i tentativi di sovvertimento del parlamentarismo sono falliti. Ci si è concentrati di più sul modus eligendi delle istituzioni, sul potere legislativo per accomodare il diritto pubblico agli interessi privati e far fallire quell’idea di stato-sociale e quella pratica medesima che nei decenni avevano costruito anche in Italia, con la lotta del PCI e di tante altre forze di progresso, una forte rete di tutela dei diritti dei lavoratori e dei ceti più deboli.
Tutto si lega tremendamente e con grande energia. PD, IdV e Terzo Polo avrebbero fatto meglio a tentare di battere col voto quell’emendamento di berlusconiani e leghisti sul semipresidenzialismo, invece di ritirarsi dall’aula del Senato.
Bisogna dire in ogni atto formale e pubblico (e quale atto formale e pubblico più alto del voto del Parlamento esiste in materia di diritto?) che la centralità del potere legislativo resterà tale e che non potrà essere oggetto di revisione costituzionale.
Esattamente come la forma repubblicana dello Stato, così come recita il “super” articolo 139 della Carta.
La tentazione dell’uomo della provvidenza, dell’unto dal Signore, del duce, del conducator, del capo supremo è sempre dietro l’angolo. Ed è abbastanza inquietante che si discuta di legge elettorale, di come ancora una volta cambiare le regole del gioco, che invece di un gioco dovrebbe essere la delega massima data dal popolo ai suoi rappresentanti, nel mentre Monti giura di non lasciare se non prima della scadenza naturale del mandato di governo e mentre lo spread sale, sale e sale…

 

 

 

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