di Salvatore Cannavò
Sono 50 milioni i posti di lavoro andati in fumo negli anni della crisi. Lo ha rilevato l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) nel suo Rapporto sul lavoro nel mondo di qualche mese fa e che siamo riusciti a leggere in ritardo. La cifra di 50 milioni si riferisce al saldo tra impieghi nel 2008 e quelli nel 2011, quindi il saldo potrebbe essere molto più negativo se consideriamo il tasso di recessione che il 2012 sta producendo. Un saldo negativo nonostante diversi paesi emergenti abbiano continuato a creare posti di lavoro non sufficienti a compensare l’andamento negativo che proviene soprattutto dall’Europa.
“Non si tratta di un semplice rallentamento - scrive l’OIL. “Dopo quattro anni di crisi mondiale, gli squilibri del mercato del lavoro sono divenuti più strutturali e in questo senso più difficili da risolvere. Certe categorie di persone, come i disoccupati di lunga durata, sono minacciati di esclusione dal mercato del lavoro. Questo significa che non riusciranno a ottenere un nuovo impiego anche se si avrà una forte ripresa”. Si tratta di considerazioni agghiaccianti.
La disoccupazione di lunga durata (superiore ai dodici mesi) è progredita nei paesi sviluppati, specialmente in Danimarca, Irlanda, Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti. In alcuni di questi paesi (come Finlandia, Portogallo, Paesi Bassi) si constata addirittura una riduzione della disoccupazione di lunga durata ma solo perché questo tipo di disoccupati sono scoraggiati e non cercano più lavoro (e dunque sono classificati tra gli inattivi).
Una porzione crescente di lavoratori si trovano in una condizione di instabilità e precarietà. “Il lavoro a tempo parziale costretto si è sviluppato nei due terzi delle economie avanzate e il lavoro temporaneo in più della metà di queste economie” scrive ancora l’OIL. E questo mentre il lavoro informale resta un tratto importante, collocandosi sopra il 40 per cento nei due terzi dei paesi emergenti o in via di sviluppo.
Netto il giudizio sulla precarietà, giudicata non solo “una tragedia umana per i lavoratori e le loro famiglie” ma anche uno “spreco delle capacità di produzione” a causa della perdita di competenze provocato da un “cambiamento troppo frequente dell’impiego e da lunghi periodi di disoccupazione o inattività”. Ovviamente il rapporto non si pronuncia sul fatto che a fronte di perdite di produttività nel lungo periodo le imprese possano avere dei profitti immediati, cioè nel breve periodo che in genera interessa per la redazione dei bilanci e la conferma dei manager.
Però è anche vero che la riduzione del lavoro va di pari passo con un deficit ”prolungato degli investimenti – un altro segno che la crisi è entrata in una nuova fase”. “Nei conti delle grandi imprese il volume di liquidità non investito raggiunge livelli inediti mentre nelle economie avanzate le piccole imprese continuano a incontrare molte difficoltà per accedere al credito”. Si passa da un rapporto medio, a livello mondiale, rispetto al Pil, del 22,9 nel periodo pre-crisi al 19,8 del 2010 che però si compone diversamente a seconda delle regioni considerate. Per le economie avanzate si passa dal 22,3 al 17,9 mentre per i paesi emergenti l’andamento è inverso: dal 26,5 al 29,5 per cento.
In questo quadro non ci si può stupire che “la società sia sempre più angosciata per la mancanza di lavoro decente”. In 57 paesi su 106 il rischio di sommovimenti sociali è aumentato nel 2011 in relazione al 2010. L’Europa, l’Africa del nord e subsahariana sono i luoghi a più alto rischio sociale.
Le “colpe” della situazione sono indicate chiaramente: “Nei paesi che hanno portato alle estreme conseguenze l’approccio austerità-deregolamentazione, scrive l’OIL, principalmente quelli dell’Europa del Sud, la crescita dell’economia e del lavoro continua a peggiorare. In numerosi casi le misure adottate non sono nemmeno riuscite a stabilizzare la situazione dei bilanci pubblici. La ragione fondamentale del fallimento è che queste politiche sono incapaci di stimolare l’investimento privato”. E’ quella che l’Organizzazione del Lavoro definisce “la trappola dell’austerità“. La stessa in cui ci ha fatto cadette il governo Monti e con lui i governi europei.
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