Intervista a Gianni Rinaldini
di Francesco Paternò

Gianni Rinaldini è stato segretario della Fiom tra il 2002 e il giugno 2010. In Fiat ha visto l'arrivo di Sergio Marchionne nel giugno del 2004, il divorzio dell'azienda dalla Gm nel febbraio del 2005, la presentazione del piano Fabbrica Italia dell'aprile 2010. Il «prima e il dopo Cristo» del Lingotto, per dirla con le parole dell'amministratore delegato del gruppo. Che ha incontrato più volte, fino alla rottura del 2008.
Come suonano i complimenti di Cesare Romiti alla Fiom, unico sindacato ad aver capito che il piano Fabbrica Italia di Marchionne non stava in piedi?
Sono un po' beffardi. Viene da domandarsi: ma dove siamo finiti? Anche uno come Romiti dice «il sindacato faccia il suo mestiere».


Avrà voluto dire che altri non l'hanno fatto.
C'è molta ipocrisia, non si può scoprire oggi una cosa che che era chiara fin dall'inizio. A questo punto, il problema deve essere come tenere insieme la politica industriale con i diritti e la democrazia. Non mi interessa l'autocritica, ma non dimentico i giorni di Pomigliano, l'isolamento non dico della Fiom ma dei lavoratori della Fiat, costretti a votare condizioni di umiliazione della propria dignità. A Marchionne avevano garantito - tutti - che a Pomigliano e a Mirafiori il referendum sul suo contratto avrebbe preso oltre l'80 per cento. E che a quel punto sarebbe scattata una pressione sulla Fiom fortissima, per imporci una «firma tecnica». Non dimentico che anche la Cgil Napoli e la Cgil Campania invitavano a votare sì. Ricostruire una posizione unitaria a livello confederale significa soltanto ripartire dalla democrazia negli stabilmenti Fiat. Se si parlasse d'altro, significherebbe accettare quello che è successo. Non si può continuare come niente fosse.
Con Marchionne, la Fiom rompe alla fine del 2008. Eppure voi avevate un rapporto molto diretto.
Un rapporto normale. Ci incontrammo la prima volta subito, nel giugno del 2004, per dirci che il problema della Fiat sull'orlo del fallimento non stava nella chiusura di uno stabilimento. Per tre anni, la sua priorità fu la finanza e non la produzione. Nel 2008 saltano i nostri rapporti perché la Fiat si oppone fino alla fine al contratto nazionale. Sarà l'ultimo per i metalmeccanici, promise Marchionne. Voleva già allora la totale libertà sulla gestione degli orari di lavoro in fabbrica.
Che succede dopo la cancellazione di Fabbrica Italia?
Il rischio è che Marchionne metterà in concorrenza gli stabilimenti italiani. Ha sempre parlato di uno o due fabbriche da chiudere, senza aggiungere altro. Come dire: salverò il miglior offerente. Marchionne non ha mai voluto discutere con nessuno il piano industriale Fabbrica Italia, e infatti non ha mai preso impegni con nessuno. Di quel piano, si capiva subito soltanto una cosa: serviva per andare all'assalto dei diritti sindacali. Se mi date tutto, vi darò questo. Ma così non è stato. Marchionne ha rimandato i nuovi modelli a quando ci sarebbe stata la ripresa dei mercati europei. Fissata prima al 2012, poi al 2013 e poi al 2014. Uno scenario completamente fallimentare.
Cosa potrebbe fare adesso il governo?
Non possono permettere la dismissione dell'industria dell'auto del paese. E ormai è chiaro a tutti che alla Fiat il problema non sono i lavoratori. Esattamente il contrario di come il governo Monti ha impostato le relazioni con Marchionne. Nessuno stabilimento italiano della Fiat gira a regime, ma alla Fiat è stato dato tutto compreso una legge, quell'articolo 8 scritto praticamente sotto dettatura. L'idea che ha Marchionne delle relazioni sindacali è quella degli Stati Uniti, anche rispetto a quel che pensa oggi la Confindustria. Ma non è un pazzo isolato in questo, al di là delle dichiarazioni di imprenditori come Della Valle. Teniamone conto.

 

il manifesto 18 settembre 2012

 

 

 

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