di Raffaele K Salinari
I tamburi di guerra in Mali rischiano di cancellare una straordinaria storia di partecipazione e di mobilitazione civile che, qualche anno or sono, aveva posto le condizioni per una soluzione radicalmente diversa della questione Tuareg e, dunque, di una parte importante dei problemi che oggi affronta il Sahel. Una storia che ancora esiste e che va sostenuta proprio in questo periodo in cui il solo rumore è quello delle armi. Mi riferisco a ciò che si creò intorno al Forum Sociale Mondiale di Bamako, nel lontanissimo 2006.
Dopo il successo di Mumbai, in India nel 2004, la sfida di un Forum policentrico che toccasse in rapida successione i tre continenti, Africa, Bamako, America latina, Caracas ed Asia, nella capitale commerciale del Pakistan, Karachi, sembrava un'impresa impossibile. Eppure fu un successo: le attività tematiche svolte furono oltre 800 mentre i partecipanti si valutarono tra i 15 e i 20 mila, provenienti da 213 paesi. Il corteo di apertura del Forum vide alla sua testa i rappresentanti del popolo Tuareg che, a dorso di cammello, erano scesi sino alla capitale, per rivendicare con la loro stessa presenza fisica il dialogo con il governo locale, che, allora almeno, sembrava disposto a fare del Mali una nazione orientata dalla parte migliore della sua millenaria cultura, a partire dalla spiritualità Dogon e dai loro dei "nati dall'acqua", fonte, possiamo ben dirlo, di ispirazione per la Carta di Bamako che il Contratto Mondiale per l'acqua lanciò in quella occasione.
«Siamo qui per esprimerci con le parole e con i nostri corpi», ci disse una delegata Tuareg che reggeva lo striscione iniziale, che dirigeva il lungo serpentone che aveva attraversato non solo la città africana, ma idealmente tutto il continente, dall'Africa del Sud al Marocco, condensando fianco a fianco in tre chilometri di strada realtà che andavano dal Fronte Polisario per l'indipendenza del Sahara occidentale (chi ne parla più?) ai Tuareg che si battevano, allora, per il commercio equo sui loro cammelli. Quella era un'Africa in marcia verso «un altro mondo possibile», come recitava l'enorme cartello del Forum Sociale Mondiale che in quell'occasione campeggiava sulla collina antistante lo stadio, quasi una parodia altermondialista del famoso «Hollywood» che incombe su Los Angeles con tutto il suo significato simbolico. Ed era proprio questa contrapposizione di simboli, oggi di morte, allora di vita, che colpisce riguardando le foto di allora, ciò che era scritto sugli striscioni che si alternavano nella manifestazione: parlavano di giustizia, di consapevolezza, di dignità, di «presa di parola» da parte di un continente espropriato per secoli di tutto e costretto da un modello di sviluppo predatorio ai margini della storia.
Attraverso i suoi simboli, le sue maschere tradizionali Bambara, Dogon, Fula, il ritmo delle Cora che scandiva il passo dei danzatori-marciatori, il continente si riappropriava della sua storia. I Tuareg scendevano dignitosi dai cammelli e si velavano il volto. Durante i seminari dedicati alle possibili soluzioni al loro problema di gestione territoriale, scuotevano vigorosamente la testa quando si cominciava a parlare di autodeterminazione: «Noi non accettiamo nessun confine, l'autodeterminazione è un concetto post coloniale; noi vogliamo che ci sia riconosciuta la dignità di popolo nomade, questo vogliamo. Attraverso l'uso consapevole della nostra diversità costruiremo anche un modello di sviluppo che riparte dalle nostre esigenze, e non da quelle dei colonizzatori vecchi o nuovi. La nostra lotta per l'indipendenza culturale è come quella dei piccoli produttori di cotone che si oppongono alla distorsione del mercato internazionale operata dai sussidi alle esportazioni del Nord. Noi vogliamo parlare di come raggiungere questa sintesi tra simbolico e politico, tra tradizione e innovazione tra lotta politica e dignità culturale». Queste erano le parole dei delegati Tuareg.
Non era facile cogliere questo piano sottile, quasi allusivo, spirituale come veniva chiaramente definito da molti delegati africani, nascosto ai partecipanti occidentali sotto il velo del «colore locale», ma bastava ascoltare le parole nuove con le quali erano state rivestite le melodie tradizionali per accorgersi che questa «tradizione nuova» aveva (ha) una forza immensa proprio perché si riappropriava del simbolico, il piano maggiormente «colonizzato», come lucidamente dichiarava Frantz Fanon nel suo I dannati delle terra, al tempo delle guerra d'Algeria.
In quello scenario, immerso nel ricordo del movimento dei non allineati, che compiva i suoi 50 anni, colpiva la consapevolezza dei giovanissimi, la maggioranza della popolazione locale, impegnati nel campo «Tomas Sankara» in dibattiti infiniti nei quali non cercavano nessuna conclusione se non il parlarsi in un'atmosfera diversa, come pure fanno le donne, «l'energia del mondo», ci diceva una delegata del Burkina Faso alla quale chiedemmo quale fosse il suo obiettivo. Ci rispose: sono io l'obiettivo. Ecco, tutti questi non sono ricordi ma realtà che continuano a operare anche adesso e che vanno sostenute, spostando i fondi dalla guerra alla pace, dagli aiuti di emergenza a quelli allo sviluppo, dal conflitto al dialogo. Un'altra Africa esiste ancora per chi vuole un futuro diverso anche per l'Europa.
il manifesto 20 gennaio 2013