di Miriam Ronzoni

In parziale risposta agli slogan della grande manifestazione svoltasi sotto l’egida del movimento Se Non Ora, Quando? il 13 febbraio 2011, un gruppo eterogeneo di intellettuali e attiviste decise, in occasione dell’appuntamento indetto dallo stesso movimento per la Giornata Internazionale della Donna l’8 marzo successivo, di scendere in piazza con una sciarpa rossa, anziché bianca, come invece indicato dalle organizzatrici delle due iniziative.

La scelta a favore del rosso (e contro il bianco virginale) era motivata dall’intenzione di prendere le distanze da quella che veniva avvertita come una fastidiosa impronta moralista data alla protesta dalle sue promotrici. Il punto, si affermava, non era auto-identificarsi come donne che “non sono in fila per il bunga bunga” (Concita de Gregorio, L’Unità, 19 gennaio 2011). Non si trattava di affrancarsi, di prendere le distanze da escort e veline, di dare voce alla maggioranza silenziosa delle donne per bene. Il femminismo, si ricordava, è contro le strutture di potere sessiste e per l’autonomia di scelta della donna – qualsiasi essa sia.

"La Libertà delle donne: contro il femminismo moralista" di Valeria Ottonelli ((Il Melangolo, Genova, 2011, euro 12) può essere ragionevolmente letto come lo sforzo di fornire un fondamento teorico, in modo argomentato ma con un linguaggio ed uno stile accessibili, all’insofferenza espressa attraverso quelle sciarpe rosse. La tesi di Ottonelli è chiara quanto intransigente: il femminismo moralista è una contraddizione in termini, nonché un cancro da estirpare dal dibattito pubblico italiano sulla questione della donna. La vocazione del femminismo è liberatoria, quella del moralismo censoria; pertanto, le due ideologie non possono che far danni se sovrapposte. Il femminismo moralista, secondo Ottonelli, si contraddistingue per la sua tendenza a identificare i maggiori ostacoli alla libertà, ma soprattutto alla dignità delle donne in una serie di comportamenti ed atteggiamenti immorali, offensivi ed umilianti nei confronti delle donne o addirittura messi in atto dalle donne stesse. In sostanza, consiste nel puntare il dito contro gli uomini che non vedono le donne come nella maggior parte dei casi esse “sono veramente”: madri, figlie, nonne, lavoratrici pronte al sacrificio, e non oggetti sessuali (si ricordi, nell’appello di Concita de Gregorio, l’accenno alla prostituzione come scelta, “se scelta a queste condizioni si può chiamare, di una minima minoranza”). Ma appunto quest’appello alla maggioranza silenziosa per cui è arrivato il tempo di dire “ora basta” è un dito puntato anche contro le donne stesse, quando scelgono di (s)vendersi e degradarsi. È un modo per dire che tante, troppe donne sbagliano, ed è necessario prenderne pubblicamente le distanze. Per il femminismo moralista, la liberazione delle donne non passa soltanto attraverso un ribaltamento dei rapporti di potere e attraverso regole del gioco propriamente egualitarie sulle questioni di genere, bensì anche e soprattutto attraverso una “trasformazione intima di tutti i membri della società, che possa condurre ciascuno a capire quali sono i veri valori” (Ottonelli, p.11, corsivi aggiunti). Si tratta di una rivoluzione morale, prima o più che politica.

I rischi del femminismo moralista, secondo Ottonelli, sono molteplici. Innanzitutto, come già detto, la sua tendenza censoria: la tentazione che esso ha nei confronti di una politica della pubblica gogna, anziché delle regole. Ma i problemi non si fermano qui. Quando il femminismo si fa moralista diventa snob, conservatore, intollerante nei confronti di stili e scelte di vita considerate non sufficientemente elevati, se non addirittura moralmente sbagliati. La tendenza è quella di condannare non solo gli uomini che “offendono” le donne, bensì anche le donne che per ignoranza, superficialità o (peggio ancora) scarso rispetto di sé si piegano a ruoli di concubina sempre disponibile, o cedono alla pressione di rifarsi il seno. Infine, il femminismo moralista mette a repentaglio proprio il tema che il movimento femminista ha sempre cercato di portare alla ribalta, vale a dire la soggettività delle donne. Sia che punti il dito contro gli uomini che “offendono” le donne (riducendo pertanto le donne stesse a vittime silenziose ed impotenti), sia che si scateni contro veline, escort e attrici rifatte, la sua vocazione è quella di remare contro l’idea che le donne siano soggetti liberi ed attivi, capaci di scelte autonome e diverse – e che alcune di queste scelte possano essere controverse, scandalose e non facilmente accettabili dalla morale dominante.

L’appello di Ottonelli contro il femminismo moralista si articola attorno a quattro tematiche. Innanzitutto, il dibattito sul corpo delle donne, che non si limita a denunciare la pressione sociale che spinge le donne (ma, Ottonelli osserva, sempre di più anche gli uomini) a sottoporre il proprio corpo a trattamenti e trasformazioni anche estremi, bensì afferma un vero e proprio ideale positivo della “vera” donna, che mostra il proprio volto, le proprie rughe, le proprie occhiaie, la propria vera faccia e pertanto la propria genuina identità – e, così facendo, si pone su un piedistallo morale. Il secondo tema è l’interesse voyeuristico per la vita personale di Berlusconi, le sue battute sporcaccione, il suo circolo di mantenute e la sua mancanza di riguardo per le “vere donne” che si sacrificano ogni giorno per il lavoro o per la famiglia. Anche qui si avverte un fastidioso tono di superiorità morale delle donne che si danno da fare per affermarsi grazie al proprio talento, nonché una tendenza a vittimizzare le donne “offese” (che è diverso dal dire “insultate”, puntualizza Ottonelli) dal machismo berlusconiano, rendendole martiri incapaci di difendersi, come invece Rosy Bindi ha esemplarmente fatto, rispondendo, a Berlusconi che ne insultava l’aspetto fisico: “non sono una donna a sua disposizione”. In terzo luogo, Ottonelli denuncia gli stereotipi con cui vengono spesso ritratte le badanti straniere operanti in Italia. Queste donne, osserva Ottonelli dati alla mano, non sono moderne schiave e Cenerentole, bensì protagoniste attive e consapevoli del proprio destino; hanno spesso precisi progetti, anche imprenditoriali, su come investire nei propri Paesi d’origine i risparmi messi da parte in Italia. L’ultimo tema è il cosiddetto femminismo familista, che non riesce a (o non vuole?) sganciare la donna dal proprio ruolo di moglie e madre, anche quando ne vuole migliorare la condizione. Insistendo sul tutelare alcuni “privilegi” femminili (ad esempio, l’età pensionabile inferiore a quella maschile), il femminismo familista riafferma, invece che sfidare, le ineguaglianze di ruoli all’interno della vita familiare. Oppure, proponendo un congedo di paternità obbligatorio, dà per scontato che il contesto all’interno del quale una donna può decidere di avere figli sia solo ed esclusivamente quello della famiglia mononucleare, accanto ad un marito o comunque ad un compagno stabile.

Il pamphlet di Ottonelli è brillante, divertente, gustoso e liberatorio, sia nei suoi momenti più argomentativi che in certi veri e propri sfoghi e sani moti d’insofferenza. Costituisce indubbiamente un toccasana nel dibattito contemporaneo, soprattutto nel suo ricordarci che la missione del femminismo non è quella di giudicare scelte di vita, bensì quella di liberare le donne, da un lato facendo pressione a favore di regole che ne tutelino l’uguaglianza, dall’altro affermando la massima libertà di scelta all’interno di quelle stesse regole. Tuttavia, credo che sia opportuno anche soffermare brevemente l’attenzione, in uno spirito costruttivo, su due aspetti in cui il piglio polemico, a mio avviso, è andato troppo in là, e rischia di avere un effetto boomerang.

Innanzitutto, il grande assente ne La "Libertà delle donne" (fatta eccezione per un breve accenno all’inizio del libro) è il modo in cui il movimento di Se Non Ora, Quando? è stato largamente costruito come moralista dai suoi avversari politici. I collaboratori più stretti di Berlusconi (Giuliano Ferrara in primis) si sono affrettati a rappresentare le promotrici del movimento come beghine frustrate e frigide bigotte, e a rappresentare Berlusconi come un uomo che, alla fine, ha commesso il solo peccato di amare troppo le donne – e quale maschio italiano (rigorosamente eterosessuale) potrebbe forse non capirlo in questo? Nell’impostare il dibattito su questa falsariga, i ruffiani dell’imperatore hanno dipinto la propria parte politica come liberale, liberata e tollerante, in barba alla pratica politica conservatrice e paternalista condotta dal governo Berlusconi su tutte le maggiori questioni di diritti civili e bioetica, che coinvolgono alcune tra le scelte più intime che le persone si trovano a compiere, affrontate negli ultimi anni (dalla fecondazione artificiale, all’eutanasia, alla regolamentazione delle coppie di fatto). Bisogna riconoscere che Ottonelli basa il proprio discorso quasi esclusivamente sulle fonti primarie – vale a dire sui manifesti (cartacei e multimediali) del movimento stesso, e non sulla sua rappresentazione mediatica, in larga parte distorta dagli avversari politici. Tuttavia, una disamina di come si sia voluto a tutti costi vedere il movimento come esclusivamente moralista e puritano, e di come la sua insistenza sui temi più classici del movimento femminista siano stati del tutto ignorati dalla stampa, sarebbe stato, a mio avviso, d’obbligo. Nella manifestazione del 13 febbraio 2011 non erano presenti solo temi moralisti, ma è solo a questi che i media hanno dato ascolto.

Infine, nello stile argomentativo di Ottonelli si avverte una certa ambiguità nei confronti del ruolo che la critica delle norme sociali deve giocare all’interno del femminismo, anche quando quest’ultimo non voglia essere moralista. Mi riferisco all’annosa questione se il personale debba considerarsi politico oppure no. Si può essere femministe senza pensare che la critica sociale non possa del tutto sorvolare sulle scelte personali, che i confini tra ciò che è pubblico e ciò che non lo è vadano rimessi in discussione? Beninteso: un’ambivalenza su questo tema è, a mio avviso, inevitabile, e la sfida per il femminismo è proprio quella di accettare tale ambiguità e di cercare quello ci sembra l’equilibrio maggiormente accettabile, benché necessariamente precario. Da un lato, va riconosciuto che la nostra vita privata non viene vissuta nel vuoto pneumatico, bensì che essa è in larga parte determinata da norme sociali sì informali, ma nonostante questo dominanti ed oppressive. È nella pressione sociale di tutti i giorni a compiere certe scelte ed impersonare certi ruoli (di madre amorevole, di gentil sesso, di collega non troppo ambiziosa ed aggressiva) che si annidano i pregiudizi di genere, si perpetuano ruoli diseguali e si riaffermano i rapporti di potere più difficili da individuare e condannare perché insidiosi e invisibili. Dall’altro, il femminismo vuole dare alle donne la possibilità di esplorare nuove strade, anziché dire loro che c’è un solo modo di essere liberata ed emancipata. Quest’ambivalenza si avverte anche nelle argomentazioni e soprattutto negli esempi di Ottonelli; ed è proprio una certa mancanza di consapevolezza (quanto meno a livello esplicito) di tale ambiguità e della sua inevitabilità che rende, a mio avviso, alcune critiche al femminismo moralista un po’ ingenerose. Da un lato, Ottonelli ci chiede di infischiarcene della vita privata dei politici e dell’immagine della donna che essa trasmette, o di non pensare che escort e presentatrici rifatte siano necessariamente meno libere dei loro colleghi maschi. Dall’altro, proprio uno dei suoi esempi più brillanti ed originali mette chiaramente in luce come non si possa prescindere da una disamina critica delle nostre abitudini private e quotidiane. Nell’ultimo capitolo, Ottonelli puntualizza con grande acume come il problema del lavoro domestico in Italia non sia soltanto la sua distribuzione diseguale, ma anche il fatto che se ne fa troppo. Le norme borghesi che altrove appartengono solo a determinate classi sociali (che si possono permettere aiuti domestici di vario tipo), per cui la casa deve essere sempre lustra, la cera passata, l’argenteria lucidata, e due pasti caldi al giorno (magari con più di una portata) sono d’obbligo, sono da noi una pratica interclassista, ed è proprio questa la nostra maledizione.

Non possiamo pensare ad una vita più libera ed emancipata se continuiamo a pensare che tanti lavori domestici in realtà superflui ed accessori siano assolutamente necessari. E che cos’è questa, se non la critica di una norma sociale che crea forme di pressione informale oppressive – soprattutto, cosa ancor più problematica, esercitate spesso dalle donne sulle donne? Il problema, vale a dire, è che sono troppi gli ambienti sociali in cui avere una casa con un po’ di polvere, o dare una pizza surgelata per cena ai propri figli, non è socialmente accettabile. Ma forse questo dovrebbe indurre ad un po’ più di cautela anche in altri ambiti: forse esistono anche troppi ambienti in cui non avere sempre un aspetto giovanile ed impeccabile, o non mostrarsi sempre disponibile (anche sessualmente), escludono le donne dal gioco. Nel primo come nel secondo caso, questo non deve tradursi in un giudizio delle donne emancipate nei confronti delle schiave del pavimento che brilla piuttosto che del botox, bensì nel riconoscimento che creare atmosfere sociali in cui stili di vita diversi sono accettati non può non essere parte integrante del femminismo – e che questo non può avvenire solo tramite leggi ed istituzioni, ma ha bisogno di una pratica educativa e di trasformazione sociale anche più informale.

 

da Micromega online

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