di Fabio Marcelli
Due cose sono chiare.
Primo, una pubblica amministrazione che funzioni costituisce il presupposto ineludibile di ogni Stato che si rispetti. Infatti è solo dalla pubblica amministrazione che il cittadino può ricevere quei servizi che il mercato si è rivelato incapace di erogare e mi riferisco a sanità, cultura, istruzione, ricerca, giustizia, sicurezza e molti altri. Al tempo stesso, solo una pubblica amministrazione che funzioni può esercitare, mediante attività normative ed amministrative, quella tutela dei beni pubblici che si rivela sempre più essenziale nell’attuale difficile frangente della vita nazionale ed internazionale.
Secondo, non può certo dirsi che la pubblica amministrazione, in Italia, funzioni bene, per una congerie di ragioni di ordine storico e politico e soprattutto per il fatto che la stessa è stata sempre ritenuta, dai ceti politici via via alternantisi al governo, solo una fonte del soddisfacimento dei propri interessi particolari.
La politica, in tal modo, si è rivelata del tutto non all’altezza del suo compito, che era precisamente quello di forgiare una pubblica amministrazione efficiente e che fosse strumento effettivo degli interessi collettivi.
Beninteso, non si può generalizzare, dato che esistono servizi pubblici funzionanti anche nel nostro Paese. Ma il quadro generale dell’Italia di oggi è purtroppo questo. A questo punto la strada da scegliere avrebbe dovuto essere quella della costruzione finalmente di una pubblica amministrazione efficiente, mediante scelte di equità e di partecipazione, con una condivisione sostanziale dei sacrifici imposti dalla crisi e l’impostazione di strategie di intervento pubblico volte a permetterne il superamento.
Il governo Monti, invece, con il sostegno incondizionato di Abc e la tolleranza sostanziale dei sindacati confederali, sceglie la strada dello smantellamento del servizio pubblico mediante la decimazione (ma è solo l’inizio) dei pubblici dipendenti, il blocco degli stipendi e quello delle assunzioni. Ne deriveranno notevoli sofferenze individuali per decine di migliaia di persone private del loro lavoro, un ulteriore peggioramento delle prestazioni erogate al pubblico, da cui deriveranno ulteriori stimoli alla distruzione, con l’apertura di spazi di mercato che i privati utilizzeranno per i propri profitti e non già per soddisfare gli interessi dei cittadini. Ne deriverà altresì un’ulteriore spinta deflattiva.
Tutto ciò in omaggio agli interessi della finanza che sarà in definitiva l’unica ad avvantaggiarsi di questa opera distruttiva. Non a caso il governo Monti esprime tali interessi. La sua religione, la stessa che sta riducendo a lumicino la Grecia e l’Europa intera, esige e compie sacrifici umani di grandi dimensioni. Naturalmente non si parla più, se mai lo si è fatto, di imposta patrimoniale, mentre restano intatte le retribuzioni e pensioni di superburocrati e politici, gli unici veri responsabili di questa situazione disastrosa. L’Europa resta in gran parte un alibi e, al di là delle chiacchiere e delle cortine fumogene, non si delinea in quella sede nessun elemento di effettiva controtendenza alle scelte neoliberiste. Divisi e litigiosi come i polli di Renzo, i differenti settori sociali assistono impotenti alla propria liquidazione e gioiscono autolesionisticamente dei colpi portati agli altri.
Ingiustizia è fatta e lungi dal risolversi la crisi si aggraverà. Grazie a Monti, grazie a Napolitano, grazie ad Alfano, Bersani e Casini. Grazie agli impavidi e imbelli sindacati confederali, incapaci ancora oggi, dopo l’attacco alle pensioni, quello all’art. 18 e l’ondata di licenziamenti che si preannuncia anche nel pubblico, a dar vita a una reazione degna di questo nome. Sostanzialmente subalterni alle varie caste politiche i sindacalisti confermano al pari di queste ultime il loro distacco dal Paese reale. Si impone, come unica soluzione, una nuova rappresentanza politica e sindacale che sappia tirare l’Italia fuori dal baratro nel quale la stanno cacciando i suoi attuali indegni “dirigenti”.