di Emanuele Tamagnini
Dopo il rinvio la tempesta. Mai concerto fu così sfortunato, chiacchierato, discusso, idolatrato, atteso e alla fine quasi ripudiato. Perchè l’estate non porta consiglio e fa perdere la testa. Poi ritornati e incassati nel lavorocanaglia quotidiano ci ricordiamo che acquistare quel tagliando, averlo pagato parecchio, aver battuto la concorrenza di qualche prossimo tuo chissà dove, è stato forse un grosso sbaglio del cazzo. Ecco cosa è successo due mesi dopo. Ecco lo sconquasso mentale che ci crea la routine aranciameccanizzata. Non abbiamo più la forza di prenderci a schiaffi. Si, perchè ad un concerto dei Radiohead non si può mancare, mettetela un po’ come cazzo vi pare. Vi sarete accorti che per questa parte di articolo ho deciso di essere sboccatamente grezzo. Userò insomma delle classiche parolacce di uso comune per destarvi dal torpore dentro al quale siete ultimamente rovinati. Perchè oltre al rifiutoripudio c’è anche la discussione. Nel 2012 Thom Yorke e maestri compagni vengono infatti “amabilmente” discussi, dalla solita inteligencia spiccia a cui piace essere snob e alla moda con i calzini di spugna. Voglio qui pubblicamente mandarvi a farvi fottere tutti insieme.
Non perchè non si possa giudicare e/o accapigliarsi sull’opera omnia della band di Oxford (ci mancherebbe Cristo!) ma perchè a farmi destare i tanti capelli ancora rimasti sulla testa è il “modo”, la presunzione, la premeditazione oserei sostenere, di come vengono accese certe affettuose diatribe. In un’epoca pseudomoderna abbagliata, abbacinata, accecata dal nulla concettualmente cosmico, in cui il playback potrebbe essere tranquillamente il nuovo Dio da venerare per molti gruppi meravigliosamente di merda, orchestre come quella dei Radiohead vanno difese e amate fino in fondo. Non siamo ancora agli onori delle armi. Ma vi siete guardati in giro? Ma vi siete guardati dentro al cuore di quella che orgogliosamente chiamate “la mia discografia”? Ma in quale scantinato vivete durante il giorno? C’è poi chi ha pensato bene prendere di mira la location, sarebbe stato meglio infatti il campetto tossico dietro casa oppure quella vecchia costruzione diroccata fuori città, poco prima di arrivare al paese zotico dove vive ancora purtroppo la nonna ottuagenaria. E invece la logistica per l’occasione è stata saggiamente cambiata prevedendo tale massa umana con lo scopo in futuro di poter essere un’alternativa valida al vituperato Stadio Olimpico. Poi sono saltati fuori i puristi della prima ora, quelli che hanno amato i Radiohead solo con i primi due dischi, che li hanno visti dal vivo quando ancora erano perfetti sconosciuti, e che però magari nel 1992 stavano ancora con un lecca lecca in bocca e le figurine di Mila e Shiro infilate su per il culo a dimenarsi le palline davanti al Postalmarket. Fortunatamente questi ci han lasciato vivere i Radiohead nei successivi venti anni. Non sono mancati poi gli opinionisti stile salotto pomeridiano in TV. Razza riconoscibile dalla tuttologia a buon mercato che propinano ad ogni occasione “adatta”. Anche loro han voluto dire la propria incentrando l’argomentare sulla “noia” che produce un concerto (oggi) dei britannici, sugli effetti catatonici di quell’elettronica sconosciuta e misteriosa che da tempo ormai ha pervaso le coscienze della band, su come sia meglio invece correre a riascoltarsi il ‘Greatest Hits III’ dei Queen, il solo di David Gilmour su quel disco come si chiama dei Pink Floyd comprato all’autogrill e passare una serata ad applaudire una trascinante cover band di medley Guns N’Roses/Vasco Rossi. Per ultimi si sono quindi paventati gli insofferenti del social network (caratterizzazione che nella vita ti consente di essere sempre IN). Quelli che invece di “staccare” la connessione e farsi due giri a Villa Borghese a respirare aria buona e arricchire la propria anima incolore, han cominciato a scagliarsi verso i “postatori” di video, foto, ricordi, biglietti e memorabilia variopinta griffata Yorke e compagni. Si può essere così dettagliatamente e incredibilmente idioti? Io sul mio profilo posto quel che cazzo mi pare, è il mio profilo non è il tuo, se non vuoi vedere i miei aggiornamenti, cancellami, opzionami, nascondimi, fottimi, ma smettila di frignare e stressare l’uccello altrui. Ecco, in mezzo a siffatto scenario si è scesi in campo per assistere al concerto dell’anno. Non fosse altro che per i “numeri” prima ancora che per il fermento, l’ansia, le aspettative, l’eccitazione, le speranze, i tam tam (scritto volutamente al plurale), le ultime notizie, le leggende metropolitane e da metropolitana, gli avvistamenti NostroSignorediThom Yorke, i miracoli, il toto-scaletta, i bagarini partenopei a loro volta bagarinati, l’incrocio spionistico-satellitare di SMS, messaggini, foto e fotine nel cui vortice sarebbe caduto anche Jason Bourne, i botteghini giudiziosamente suddivisi alfabeticamente per sveltire il ritiro biglietti, le code oceaniche sul Grande Raccordo Anulare e il conseguente giorno di ordinaria follia.
Il privilegio del biglietto w.a.s.t.e. in fondo è servito a poco. Un’entrata dedicata e poco più. Proprio al controllo elettronico del codice a barre un addetto alla sicurezza over 40 mi fa: “il biglietto a uno con la maglietta di Johnny Rotten (PiL) glielo controllo io! Li ho visti pure a Milano…”. La serata inizia bene e lo spazio dietro al mixer è ancora vuoto. L’area è finalmente capiente, il palco splendido, gli standgazebo merchandise e ristoro sono ovunque, così come cessi chimici, cestini e forze dell’ordine. L’unico neo rimane la viabilità esterna e la conseguente ricerca di posto ma con un afflusso del genere si può dire che è stato fatto quasi un miracolo. Giacchettino sulle spalle e alle 20.20 circa Dan Snaith e i suoi Caribou puntualmente compaiono sull’enorme stage. Formazione raccolta a “specchio” per un set ormai ipercollaudatissimo dove la tendenza da ascolto per club qui si eleva all’ennesima potenza, rilasciando quell’elettronica voltaica ripiena di kraut/Neu!-kraut/Can che in tendenza ascensionale ammanta l’aria e colpisce la mente. Superba e grandissima la seconda mezz’ora. Daniel ringrazia più volte ed esce presentando di fatto i Radiohead.
Dodici schermi sospesi alle spalle della band, rifrazioni e codici, applicazioni e futuro, sontuosità e immenso rigore stilistico. In nero. 5+1. La classe del cuore e dell’essere. Dimentichiamo troppo spesso la grandezza di questa formazione, l’importanza, l’incidenza, la sontuosità che è chiara, chiarissima altrove, ma mai abbastanza da queste parti. Clive Deamer è da circa un anno il percussionista aggiunto. Il resto è storia. Tra queste righe voglio scriverlo ora: nessuno oggi raggiunge questi livelli, ribadisco nessuno. La scaletta che ci aspettava viene messa in modalità shuffle e proposta in posizione devastante. Da subito i Radiohead rispondono indirettamente a chi pensa ancora (nell’anno domini 2012) che assistere ad un loro concerto sia “noioso”. Una leggenda tramandata tra teste vuote e stolte, tra stolti e teste vuote. Mai show fu più dinamico e lacerante, più demolente e principesco. Thom Yorke, che non ricordavo così divertito e accogliente, snocciola frasi in italiano semi-perfetto, chiuso stretto in un codino, immerso in quel nero che lo farà più volte sembrare un’ombra sinuosa, quella danza, quelle movenze, quella trance liricamente alta, anche quando tra le mani compare una chitarra. ‘Lotus Flower’, ‘Bloom’ e ‘15 Step’ sono solo un antipasto, un preludio di un oceano sfolgorante che ci invade già con la commovente bellezza di ‘Weird Fishes/Arpeggi’. Il film continua ad andare tra quei dodici quadrati in sospensione, che ora appaiono come dolci nuvole ad accompagnare ogni respiro, ogni sospiro, ogni scintillio di questi autentici maestri. Mi fisso per un attimo a guardare Jonny Greenwood, splendido quarantenne, magnifico nel raccontare anche col corpo una fusione con pochi eguali tra i contemporanei. Dalla penetrante algida freddezza di ‘Kid A’ ai profumi kraut di una clamorosa ’Morning Mr. Magpie’ e poi come per incanto ecco il bosco sinistro di ’There There’ dentro al quale decido di perdermi. La testa esorcizzata, gli occhi socchiusi e la sempre poco considerata ‘Separator’ è defibrillazione da emozione che giunge al momento giusto. Ma quell’oceano iniziale rilascia ora la sua onda più imponente, ‘Pyramid Song’ è discesa negli abissi, il silenzio è tutt’attorno che si apre improvviso rotto dall’implorazione squarcicatrice di ‘Nude’. E’ già tempo di piangere.
Yorke annuncia una canzone nuova, più o meno nuova aggiunge, e alle prime note di ‘Staircase’ (dalle ‘Basement Session’ con ‘The Daily Mail’) non è ormai possibile tornare indietro. Tra le più belle composizioni di sempre della band. Con quell’azzurro preponderante che sospinge all’estremo il concetto di meraviglia e purezza. Yorke in questo momento ai miei occhi è Dio. Il salto all’indietro passa per ‘I Might Be Wrong’ e si completa con quella “very old song” che fa saltare in aria mezza arena. Ritorna ‘Planet Telex’ da un lontano nostalgico 1995, abbinata all’epoca ad ‘High And Dry’, e che originariamente doveva chiamarsi ‘Planet Xerox’ prima di un intervento legale di trademark. Le elucubrazioni algebriche di ‘Feral’ si sposano con il rito primitivo dell’inarrivabile addio alla chitarra ’Idioteque’, a chiudere la prima mostruosa parte. Solo qualche attimo e l’encore si traduce nella solitudine di ‘Exit Music (for a Film)’, brano scritto appositamente per chiudere sui credits ‘Romeo + Giuliet’, ma che invece fu poi inserito in ‘OK Computer’, diventando uno dei segni distintivi proprio di quel periodo, di quell’album, su cui band inascoltabili (i Muse ad esempio) ci hanno costruito una carriera. Dopo la nuova, la vecchia arriva anche quella d’amore. Il terzo annuncio di Yorke riguarda ‘House Of Cards’ che quattro anni fa ci ha praticamente introdotto ad ‘In Rainbows’, un gioiello di raffinatezza davvero unico.
‘The Daily Mail’ e le sue “implicazioni” viene dedicata all’ex premier Silvio Berlusconi. Per tutta l’informazione italiana, questa è fin da ora l’unica notizia importante riguardo questo concerto, basterà farvi una rassegna stampa anche solo grossolana e capirete. Siamo all’eccellenza pura, siamo tornati a parlare di musica, siamo subito scaraventati in un’altra dimensione con l’aggressiva e quanto mai riuscita ‘Myxomatosis’ che apre la quiete di una caposaldo come ‘Paranoid Android’. Ancora una volta tra queste righe ripeto che nessuno oggi raggiunge questi livelli. I Radiohead si confermano totali. Il nuovo bis, il tris, l’encore parte II, è racchiuso in altri tre momenti da ricordare su cartolina. Devo confessare che avevo lasciato in un cassetto ‘Give Up The Ghost’. Ma l’impalpabilità e il cielo ormai volto alla notte, sono lo scenario perfetto per questo evocativo strappo dell’anima che conclude l’ideale trilogia con ‘Reckoner’ - tra i pezzi più belli di ‘In Rainbows’ ed in generale dell’ultima produzione tutta - e con ‘Everything In Its Right Place’ che aspettavo con luce viva negli occhi. Thom Yorke finisce praticamente alla consolle mentre tutto scorre, tutto si completa, tutto si definisce. Quando anche l’ultimo aereo si affianca luminoso per l’atterraggio le nuvole sospese si spengono. E avrei voglia di scrivere su un quadernino qualche parola a caldo che possa ricordare queste due ore e dieci minuti di concerto. Vorrei adagiarlo magari sulle fronde di questo pino affinchè un giorno lontano qualcuno possa ritrovarlo e leggere di quest’immensità. Di questi ragazzi venuti da Oxford che amavano i Ride quando sui fogli bianchi prima di Radiohead firmavano come On A Friday. Di questi ragazzi che oggi non hanno eguali, non hanno padroni, non hanno paragoni. Ma hanno mantenuto intatto quel talento unico attraverso il quale riescono ancora a costruire intere distese di sogni. Proprio questo ho scritto su quel quadernino. Nessuno oggi raggiunge questi livelli. Nessuno.