monti confindustriadi Franco Bianco
Nelle ultime settimane si è più volte sentito dire, da parte del Presidente Monti, che l’anno 2013 vedrà una ripresa dell’economia. Questa affermazione viene presa per buona dalla maggior parte dei commentatori, siano essi giornalisti oppure appartenenti al mondo della politica; una parte minore – degli uni e degli altri – nutre perplessità e riserve, quando non scetticismo, in merito alla fondatezza di tali ottimistiche enunciazioni. Nell’un caso e nell’altro, comunque, è difficile che vengano espresse e divulgate considerazioni di tipo analitico, basate su numeri comprensibili da tutti e tali da non dare adito ad interpretazioni soggettive, sia per giustificare la condivisione dell’ottimismo, quando c’è, sia per motivare le riserve sulla credibilità da attribuire alle positive affermazioni del Professor Monti.


Partiamo dal ”dove siamo”. Secondo il ”World Economic Outlook” del Fondo Monetario del 24 Gennaio 2012, il Pil italiano ha avuto, dal 2008 ad oggi, il seguente andamento: 2008/1,2%; 2009/-5,1; 2010/+1,5; 2011/+0,4. Gli ultimi dati previsionali assegnano al 2012 una contrazione del -2,4%. Da questi dati, applicati in modo ”composto” (come correttamente si deve fare), si deduce quanto segue: fatta pari a 100 la situazione dell’economia italiana nel 2007, alla fine del 2012 essa sarà pari a 0,93, vale a dire sarà di ben il 7% inferiore al suo valore di fine 2007 (monetizzando questo dato percentuale, esso equivale a oltre 100 miliardi di euro! Una cifra colossale).

 

Di conseguenza, se pure  – dato poco credibile, ma assumiamolo per un attimo come possibile – l’economia crescesse nel 2013 del 2% (le variazioni si intendono anno su anno, vale a dire il 2013 si riferisce al livello in cui essa si trovava a fine 2012), il Pil del 2013 sarebbe ancora pari al 95% di quello del 2007; e se il tasso di crescita medio si mantenesse positivo negli anni successivi con un valore annuo del 2% (tassi di crescita di questo ammontare sono tutt’altro che facili, specialmente nelle economie occidentali, ed in quelle europee in particolare), il valore del Pil si riporterebbe  a quello del 2007 soltanto alla fine del 2016 (!). Cosa vuol dire questo, in soldoni? Vuol dire che, pur in tale rosea (e, ahimé, poco probabile) prospettiva, l’Italia si troverebbe ad aver perso un intero decennio. Un’epoca storica, ai tempi attuali.

Allora verrebbe da chiedere al Professore bocconiano: su che cosa fonda il suo ottimismo, quando le cose, ammesso pure che vadano come lui afferma di credere con la sua sapienza (certo non discutibile) di economista, si trovano in modo tale che per bene che vada l’economia ricomincerà a crescere, rispetto al livello del 2007 (che poi non è che fosse un granché, in quell’anno), soltanto nel 2017? E’ questo che dovrebbe farci gioire e dovrebbe alleviare le preoccupazioni – i disagi, le sofferenze – della gran parte dei cittadini italiani?

E poi, altra domanda: con quale tipo di distribuzione avverrebbe quella crescita media ma sicuramente non linerare, cioè non uguale per tutti i settori, del 2% (come abbiamo assunto per ipotesi), vale a dire quali settori avanzerebbero maggiormente in modo da compensare la crescita probabilmente (inevitabilmente) più lenta di altri, e quali sarebbero i settori meno ”effervescenti”, cioè quelli a crescita meno pronunciata? Domanda, questa, non peregrina, poiché la risposta consentirebbe – soprattutto ai giovani  – di indirizzarsi verso quei settori per i quali ci si aspetta un maggiore sviluppo, per evitare di ingrossare, anche in anni di attesa ripresa, le fila di giovani che faticano a trovare accesso al mercato del lavoro.

Ecco, qui c’è un altro punto dolente, purtroppo ben noto: l’occupazione, ed in primis quella giovanile. Perché, come sappiamo, la crescita dell’economia non comporta necessariamente crescita dell’occupazione: anzi, questa tende a contrarsi, a causa del progresso tecnologico (la ”disoccupazione tecnologica”, appunto) che, aumentando l’automazione, riduce la domanda di lavoratori. Non basta, allora, che cresca l’economia, ammesso pure (e non scontato) che questo realmente avvenga, ma occorrono interventi specificamente mirati ad aumentare l’occupazione, e misure dirette a facilitare la collocazione lavorativa dei giovani, prima che un’intera generazione venga definitivamente ”perduta” ai fini del lavoro (siamo già sulla strada), con tutte le conseguenze, socialmente devastanti, che questo comporta.

Quali sono le risposte che il Professor Monti ed i suoi collaboratori riescono a dare a questi così angosciosi ma concreti quesiti? E quali quelle che le forze politiche progressiste sono capaci di proporre con disegni e programmi precisi, senza enunciazioni da ”libro dei sogni” (o da ”lista della spesa”) alle quali nessuno crede e che rischiano di far divenire voragine incolmabile il già profondo fossato fra cittadini e politica?

In fondo è questo che si intende quando si parla di ”bisogno di politica”: eppure a queste domande, semplici in sé, è difficilissimo trovare risposte (risposte serie, s’intende).

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