121004veltronidi A. Fab.
Ci sono due modi per rovinare i piani di Pierluigi Bersani (oltre a quelli che Pierluigi Bersani trova da sé). Il primo sarebbe batterlo nelle primarie, il secondo è sabotare la sfida. Walter Veltroni ha scelto questa seconda modalità, principalmente. Anche ieri ha evitato l'appoggio esplicito a Matteo Renzi. Eppure è noto che tutta la sua corrente sta lavorando al massimo per il sindaco di Firenze. Però l'ex sindaco di Roma si tiene distante, descrivendosi nel ruolo del padre nobile. «Più che schierarmi mantengo come Prodi una posizione di riserbo». Difficile che Prodi apprezzi. Più che un gesto di rispetto da parte di quello che è stato il primo segretario del Pd - e che poi ha organizzato un'area interna al partito - la scelta di Veltroni di non sbilanciarsi ufficialmente assomiglia a un atto di sfiducia verso lo strumento scelto da Bersani per legittimare la sua leadership. E non è finita qui.

«Sono preoccupato che il Pd si divarichi», ha detto Veltroni intervenendo alla presentazione di un libro scritto dai senatori Morando e Tonini, due ultras montiani del Pd (giocava dunque in casa), «se Renzi tira dalla sua parte e i giovani turchi dalla loro c'è rischio di tensioni identitarie, di pericolosi ritorni alle origini». È la seconda volta che tra i democratici si evoca la scissione. Negandola, perché così impone la tecnica. Il primo era stato Renzi lunedì: «Il Pd è casa mia, non ne uscirò mai, nemmeno se mi cacciano». Il sindaco di Firenze aveva indicato nell'ala sinistra del partito i potenziali epuratori. Quei «giovani turchi», cioè il gruppo di Fassina e Orfini, citati anche da Veltroni. Il quale fa un passo in più e arriva a mettere in conto la «distruzione» del partito democratico.
Dice l'ex sindaco di Roma che «le primarie di coalizione sono una contraddizione in termini». E in effetti le uniche primarie alle quali si è candidato, vincendole, sono state quelle del 2007 interne al Pd per la carica di segretario. Aveva però partecipato attivamente anche alle primarie di due anni prima, quelle di coalizione dalle quali uscì la candidatura di Prodi a palazzo Chigi. Allora Veltroni sosteneva che lo strumento era una grande prova di democrazia che serviva a tenere unito il centrosinistra. Quando è toccato a lui correre per la guida del governo, invece, ha evitato le primarie dopo aver fatto scrivere nello statuto del Pd che il segretario è automaticamente il candidato. È questa la regola che Bersani chiederà di cambiare sabato prossimo per permettere a Renzi di correre. Ma l'attuale segretario democratico chiederà anche di fare altre modifiche, immaginando primarie «rigide» con iscrizione obbligatoria degli elettori, albo pubblico dei votanti e possibilità di votare al secondo turno solo per chi ha già votato al primo. Renzi non ci sta: «Non si cambiano le regole in corsa».
Sia come sia, c'è una «precondizione» che ad avviso di Veltroni le primarie devono rispettare: «I candidati devono sottoscrivere un impegno per cui chi vince è sostenuto da tutti gli altri, o non ci si capisce più nulla». In mancanza di un accordo del genere non avrebbe senso nemmeno parlare di primarie. Ma è pur vero che i sostenitori di Renzi stanno spostando ogni giorno un po' più a destra l'asse della loro proposta, che adesso è pienamente nella continuità con il governo Monti. Una continuità non solo di agenda, ma anche di candidato. «Bisogna creare la condizione di un grande schieramento riformista», ha detto ancora Veltroni, aggiungendo che «se Monti è disponibile è una grande ricchezza per il paese». Si fanno le primarie e si tifa per il Monti bis, in effetti non si capisce più nulla.

Il Manifesto - 04.10.12

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