121010precariodi rassegna.it
Non certo “bamboccioni”, ma lavoratori qualificati, ricattabili, con retribuzione incerta e senza ferie o malattie pagate. Sono quasi sei milioni, e vivono la loro condizione con disagio, consapevoli dell'impossibilità di costruirsi una vita con basi solide, anche dopo i quarant'anni. E' questa la foto di gruppo de precari italiani, scattata grazie a un’indagine promossa dalla Cgil in collaborazione con il settimanale “Internazionale”, e finalizzata a comprendere la situazione dei lavoratori nell’era della flessibilità. I risultati dell'indagine sono stati presentati lo scorso 7 ottobre a Ferrara, durante il Festival di Internazionale e alla presenza di Susanna Camusso (segretario generale Cgil).

 

Si tratta di un'indagine complessa e difficile, su un mondo piuttosto sfuggente, di cui si parla molto ma di cui si sa ancora troppo poco. Per questo è stata realizzata su internet, grazie a un questionario online attivo dal 2 maggio al 30 giugno 2012 su un sito appositamente costruito per l’indagine: www.storieprecarie.it. Il sito era collegato ai portali dei promotori, oltre che ai siti dagli altri media partner dell’indagine (Rassegna.it, l’Unità) che hanno diffuso notizie sull’indagine invitando più volte i lettori a partecipare, sia nei network informativo-sindacali sia attraverso i social network.

Gli autori sono Patrizio Di Nicola, docente presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza di Roma; Francesca della Ratta-Rinaldi, dottore di ricerca in Metodologia delle Scienze Sociali e Politiche e ricercatrice presso l’Istat; Ludovica Ioppolo, dottore di ricerca in Ricerca Applicata alle Scienze Sociali alla Sapienza e Simona Rosati, dottore di ricerca in Scienze della Comunicazione e ricercatrice Istat.

Nessun bamboccione. In questo caso, però, sono stati gli stessi precari a raccontare la loro vita, le peripezie alle quali sono costretti, le difficoltà. Nel periodo di rilevazione si sono registrati ben 1.800 contatti, che hanno dato luogo a 470 questionari completi. Ebbene, nel campione di “bamboccioni” se ne sono visti davvero pochi. Vivono nella casa di famiglia solo il 12,6%, mentre un ulteriore 12% condivide l’appartamento con altre persone. Sono per lo più i giovani, con un’età inferiore ai 30 anni. Ma quando l’età cresce, precariato o meno, il bisogno di indipendenza diventa impellente. E non si può rinunciare neanche in assenza di un lavoro stabile. Naturalmente questa decisione è resa più facile se il coniuge lavora e se si vive in un appartamento di proprietà. La dipendenza dalle famiglie di origine, insomma, più che da motivazioni psicologiche, dipende dalle incerte condizioni economiche.

Qualificati. Tra l'altro, il lavoro che svolgono i precari italiani è molto qualificato, e ciò dipende anche dall’alto titolo di studio che posseggono. Questo però non attenua la loro precarietà: anzitutto perché lo sono da molto tempo: oltre 6 anni nel 60% dei casi, ma uno su tre ha “spento la candelina” dei 10 anni di precariato. Se si considerano le tre ultime professioni svolte dagli intervistati, si nota che solo un quarto ha avuto un percorso professionale del tutto coerente, caratterizzato cioè dall’aver svolto sempre la stessa professione o almeno professioni affini. Molti (il 25,4%) hanno accettato lavori che richiedevano livelli di qualifica inferiori a quelli posseduti e almeno nel 40% dei casi i percorsi professionali sono intermittenti, costellati da lavori meno qualificati rispetto a ciò che si è studiato o si sa fare.

Pochi vantaggi. Il lavoro precario, però, porta anche qualche limitato vantaggio: ad esempio cambiare spesso luogo di lavoro fa conoscere più persone, ed è facile avere buoni rapporti con i colleghi. Inoltre, per coloro che lavorano senza vincoli rigidi di orario, aumenta la possibilità di conciliare i tempi di lavoro e non lavoro. Ma ovviamente dietro alla condizione di precario vi sono soprattutto forti paure verso il futuro. E ciò specialmente nei periodi di crisi economica, che agisce come un moltiplicatore di rischio. Non stupisce che tra i nostri intervistati esista oggi un forte e generalizzato scoraggiamento.

Cervelli in fuga. Chi ha la qualificazione più alta pensa spesso di andarsene dall’Italia, e alcuni dei nostri intervistati hanno avuto esperienze in tal senso. Lavorare all’estero è un’esperienza positiva sotto il profilo retributivo e professionale, ma devastante nell’ottica dei rapporti sociali: bisogna ricominciare da capo, lasciare amici e parenti e reinventarsi in una nuova lingua e cultura.

Dignità svenduta. Ma quello che più brucia del lavoro precario è che esso rende schiavi del proprio datore di lavoro: bisogna starsene docili come cagnolini, senza rivendicare neanche i diritti più elementari, altrimenti si rischia di non essere confermati allo scadere del contratto. In questo modo il lavoro perde dignità, e con esso chi lo svolge.

Cosa fare. Molto interessanti, infine, le ipotesi abvanzate dai precari per risolvere la loro situazione. Gli interventi che vengono più citati (dal 28,7% degli intervistati) ruotano attorno a un sistema di incentivi (e in misura minore di disincentivi) anche fiscali, intesi a scoraggiare l’utilizzo di contratti precari da parte delle imprese e a favorire invece la vera flessibilità del lavoro e i percorsi di stabilizzazione e continuità lavorativa, in grado di restituire la dignità persa al lavoro. Ma accanto a tali riforme bisogna aumentare i controlli e le ispezioni sulle imprese, per sanzionare i comportamenti scorretti, come l’uso di falsi lavoratori autonomi, la reiterazione dei contratti a termine, l’uso improprio di collaborazioni e stage, il mancato rispetto dei periodi di ferie, malattie, maternità. E certo non si può prescindere dalla creazione di un sistema di welfare che tuteli il lavoratore, a prescindere dal contratto che ha stipulato, nel lavoro e tra i lavori. I nostri intervistati sono coscienti che alcuni dei lavori che svolgono sono destinati a scomparire davanti alle crisi di mercato e alle difficoltà delle aziende, per cui non cercano strenuamente il “posto fisso” ma un sistema equo di tutele che permetta alle persone di cambiare lavoro senza traumi e paure, mantenendo la propria dignità.

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