di Pierluigi Sullo
Avere ragione troppo presto equivale ad avere torto. Ovvero: adesso che undici paesi dell'Unione europea (Italia inclusa, incredibile) hanno detto sì all'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, o Tobin Tax, molti di quelli che presero le manganellate a Genova, nel 2001, avrebbero motivo di dirsi: avevamo ragione noi.
È del 1997 l'editoriale di Ignacio Ramonet su Le Monde diplomatique, intitolato «Disarmare i mercati», grazie al quale si iniziò una campagna mondiale e fu fondata, in Francia e in decine di altri paesi, l'associazione Attac. Quella italiana raccolse all'inizio del decennio 180 mila firme per una legge di iniziativa popolare, la Svezia adottò una sua Tobin Tax e il Belgio, il Canada e altri decisero di vararla se la cosa si fosse diffusa.
La Tobin Tax, nonostante la ritrosia del suo inventore, l'economista inglese James Tobin, era diventata una bandiera del movimento altermondialista, quello di Porto Alegre. Voleva dire: di fronte a una economia che si sta consegnando con le mani legate alla speculazione finanziaria, bisogna che la «politica», cioè la volontà dei cittadini, torni a prevalere, o almeno a tagliare le unghie di una finanza onnivora, planetaria e più veloce della luce, alla ricerca di tassi di profitto - spiega Luciano Gallino nel suo Finanzcapitalismo - superiori in modo abnorme a quelli che l'economia reale potrebbe mai procurare. Non era proprio una rivoluzione, ma almeno l'inizio di un «contromovimento», come diceva Karl Polanyi.
E ora? La Tobin Tax semi-europea disarmerà i mercati? A sostenerla più insistentemente sono stati i presidenti francesi, Sarkozy (per ragioni nazional-francesi) e Hollande (per ragioni social-francesi). E non è un caso: in Francia il dibattito sull'invasione dei mercati finanziari nella sovranità degli Stati - e nella vita delle persone - divampa da anni. Si è poi associata Angela Merkel, forse per il banale motivo che gli oltre 50 miliardi ricavabili dalla tassa potrebbero alleggerire l'impegno tedesco nei fondi strutturali della Ue, cui quei soldi sarebbero destinati. Dopo di che hanno aderito gli altri nove Stati, ma non la Gran Bretagna, che non metterebbe a rischio le attività del super-hub finanziario della City di Londra nemmeno con una pistola puntata alla nuca.
Ma non sarà che nel frattempo i buoi sono scappati dalla stalla? Nel febbraio scorso la voce (punto info) del liberismo italiano on line ha pubblicato un articolo di Massimiliano Marzo e Paolo Zagaglia intitolato «Ecco perché la Tobin Tax è una pessima idea». La prima obiezione è ovvia: se il mercato è globale, come si fa ad applicare una simile tassa solo in Europa? È per questo che la Svezia dovette, dopo qualche anno, rinunciare: i capitali scappavano. Ma altre due obiezioni sono serie, benché i due le citino come fossero fenomeni naturali: «Come sarebbe possibile gestire un'imposta in un mondo in cui le transazioni vengono concluse ogni 10-15 microsecondi?». E poi: «...i problemi degli ultimi mesi non vengono tanto dai mercati regolamentati... quanto dai mercati paralleli non regolamentati».
Nel libro di Gallino queste due caratteristiche abnormi dei mercati finanziari sono descritti con raccapricciante esattezza. A «investire» non sono esseri umani ma algoritmi che marciano a velocità supersoniche, agiscono su variazioni in su o in giù millimetriche e 24 ore su 24; e il grosso dei mostri che hanno causato l'inizio della crisi finanziaria, «prodotti» letteralmente incontrollabili dai loro stessi creatori, si agitano negli scantinati dei «mercati paralleli» e proliferano.
Ci si può consolare, con ragione, dicendosi che la Tobin Tax all'europea è un frammento utile del discorso antiliberista: nella percezione generale si depositerà per lo meno un dubbio: ma perché a pagare le tasse, e tante, siamo noi e non gli speculatori finanziari?
Chissà, ci si potrebbe proporre, adesso, di avere ragione con quindici anni di anticipo, promuovendo una campagna mondiale per ridurre il ruolo delle banche a quello di offrire credito alle attività produttive, abolire i mercati finanziari paralleli non regolati e i loro «prodotti» avvelenati, e in generale fondare una economia il cui metro di misura sia - banale ma rivoluzionario - il benessere sociale e ambientale. Magari a quell'epoca anche il nuovo presidente del consiglio, Mario Monti, sarà d'accordo con noi.
Il Manifesto - 10.10.12