121012legadi Giorgio Salvetti
Dopo il lungo vertice romano con Alfano e Maroni, il governatore lombardo azzera la sua giunta ma rimane a capo delle regione più ricca e inquisita d'Italia. A giorni la nuova squadra. Il Carroccio cede al ricatto del Pdl: «Se salta la Lombardia saltano Veneto e Piemonte».
E' stata una farsa. E il primo attore è ancora Roberto Formigoni. Dopo un lunga giornata a colloquio con Angelino Alfano e Roberto Maroni nel quartier generale del Pdl, in via dell'Umiltà, a Roma, il Celeste si presenta tronfio davanti alla stampa. Basta guardarlo in faccia per capire che non solo è riuscito ancora una volta a rimanere in sella ma che in Lombardia è sempre lui a comandare le danze dei due partiti della maggioranza. Pdl e Lega, sempre più in crisi di consensi, pendono ancora dalle sue labbra per non cadere in un baratro che porterebbe tutti al disastro definitivo.

Su questo abisso Formigoni riesce a destreggiarsi e a dettare la musica. La solita musica: se cade lui cade tutto, dunque tutto può cambiare ma nulla deve cambiare davvero. Soprattutto nessuno osi parlare di dimissioni del governatore. Formigoni non lo butta giù neppure una cannonata, neppure l'arresto di un assessore che ha comprato i voti dalla 'ndrangheta.
E allora la montagna ha partorito un topolino: la giunta sarà azzerata ma Formigoni la rifarà entro pochi giorni con pochi assessori e qualche concessione «programmatica» agli «amici della Lega». Tutto qui. Il Carroccio è servito. Roberto Maroni, l'ex ministro antimafia, non può fare altro che buon viso a cattivo gioco. Deve rimangiarsi le parole forti e minacciose con cui l'altra sera il suo partito aveva deciso finalmente di cantarle a Formigoni dopo l'ennesimo scandalo che ha fatto tremare il Pirellone. A Bobo non è restato altro che attaccarsi alla vicenda di quel leghista di Rho che, secondo l'inchiesta che ha portato in carcere l'assessore Domenico Zambetti, ha rifiutato l'offerta di voti della 'ndrangheta e non è stato eletto. «Questo per noi è l'esempio», ha abbozzato.
Già in mattinata era chiaro che l'ultimatum leghista non avrebbe retto alla ben più consistente minaccia e al solito ricatto lanciato da Roberto Formigoni poco prima di entrare in via dell'Umiltà. Il governatore ha preso l'aereo e ha deciso di giocare la sua partita più difficile a Roma, sul piano nazionale. Altro che Padania. «A Maroni dico una sola cosa - ha esordito il Celeste - è nella coalizione o no? Se è nella coalizione discutiamo, altrimenti si avranno ripercussioni anche sulle giunte di Veneto e Piemonte. La Lega deve mettersi l'animo in pace, l'accordo c'è ed è politico». Insomma, se salta lui salta tutto. Poco dopo arriva Maroni, passa un'ora e si capisce subito che il «pizzino» di Formigoni ha raggiunto l'obiettivo. Poi, all'ora di pranzo, il governatore lombardo sale al Quirinale dove, ironia della sorte, Napolitano lancia il suo monito contro lo spreco di denaro pubblico delle regioni. Forse c'è il tempo per una visita a palazzo Grazioli per l'ok di Berlusconi. Nel primo pomeriggio Formiogni torna in via dell'Umiltà già certo di aver vinto la partita. E a nulla servono le lamentazioni di Luca Zaia e Roberto Cota, i governatori leghisti, che lo invitano a pensare alla Lombardia. «Ci sono sempre io, non mi dimetto - annuncia Formigoni - Indipendentemente da tutti siccome il presidente eletto sono io e voglio dare risposte ai cittadini lombardi, ci sarà una forte discontinuità che metterò in atto nei prossimi giorni: una riduzione molto forte della giunta che sarà rinnovata».
Le successive tre ore di colloquio con Alfano e Maroni sono solo una lunga e inutile attesa. Il succo è già chiaro a tutti e la partita è finita a tarallucci e vino. C'è giusto il tempo per una dichiarazione di Bossi che redivivo bofonchia: «Se fossi Formigoni non mi dimetterei». Finalmente i tre escono dal conclave e confermano quello che il Celeste ha già annunciato ore prima. Non si parla più neppure di voto anticipato. Maroni lo spiega così: «Sono responsabile, sono a capo di un partito che regge il governo in tre regioni del nord». E così le parole tonanti del prode Matteo Salvini, segretario della Lega lombarda, sono dimenticate. Unica magra concessione: entro dicembre il Pirellone dovrà varare una nuova legge elettorale regionale che dovrebbe abolire i listini bloccati, quelli in virtù dei quali sono stati eletti il Trota e Nicole Minetti. E poi? «Abbiamo il dovere - china il capo Maroni - di continuare il buon governo e garantire l'eccellenza della Lombardia». E la 'ndrangheta stappa una bottiglia.
Nella regione più ricca e con più inquisiti d'Italia, gli interessi politici ed economici, da Expò in giù, sono troppo forti e il padrone resta sempre il Celeste. Almeno fino alla prossima bordata delle procure.

Il Manifesto - 12.10.12

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