di Claudia Moretti
E' ormai fatto notorio: la televisione italiana rappresenta la società in un modo irreale, macchiettistico quasi, rappresentando uomini e donne di un'Italia che non esiste, o non esiste più.
Uomini attempati vestiti in giacca e cravatta al fianco di giovani seminude, belle e mute. Non solo in programmi quali Veline, Ciao Darwin e Striscia la Notizia al centro di critiche da anni, ma anche in icone della modernità e dell'intellettualismo come Che tempo che fa (si pensi alla bella svedese Felipa Lageback che accanto, a Fazio, non ha altro ruolo se non quello di sorridere) o nella sagra nazional-popolare del festival di Sanremo. La donna rimane ai margini, subordinata, muta o tutt'al più sorridente, oggetto di sketch televisivi dove l'uomo è dipinto come un vecchio bavoso che seduce la giovane. Spesso inquadrata dal basso, deumanizzata.
Non si racconta, invece, la complessità della nostra società, le nuove generazioni che nulla hanno a che vedere con quel modello televisivo proposto.
Nulla di nuovo. Quel che è meno notorio è che tutto ciò è bandito da decenni dal nostro ordinamento internazionale e, dunque, anche in quello nazionale. La lotta agli stereotipi, infatti, rientra a pieno, negli obiettivi d'azione di pari opportunità ed è il corollario dei principi di pari dignità e di non discriminazione.
Ormai da oltre quarant'anni, le Nazioni Unite, hanno preso atto dell'esigenza di intervenire sulla rappresentazione di genere, approvando la Convenzione sui diritti delle donne CEDAW, ossia la Dichiarazione sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, adottata dall'Assemblea Generali nel 1979 e ratificata dall'Italia nel 1985).
Ecco quanto riporta l'articolo 5:
“Gli Stati prendono ogni misura adeguata:
a) al fine di modificare gli schemi ed i modelli di comportamento socioculturale degli uomini e delle donne e di giungere ad una eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere, che siano basate sulla convinzione dell'inferiorità o della superiorità dell'uno o dell'altro sesso o sull'idea di ruoli stereotipati degli uomini e delle donne
b) al fine di far sì che l'educazione familiare contribuisca alla comprensione che la maternità è una
funzione sociale e che uomini e donne hanno responsabilità comuni nella cura di allevare i figli e di
assicurare il loro sviluppo, restando inteso che l'interesse dei figli è in ogni caso la considerazione
principale”
Già negli anni '90 l'obiettivo posto dalla CEDAW viene ribadito e rafforzato nella Piattaforma di Pechino (1995, protocollo emanato in seno alla IV Conferenza Mondiale delle Donne organizzata dalle Nazioni Unite) dove si individuano varie aree critiche di azione e promozione dei diritti delle donne, tra cui anche una, rubricata Donne e Media. La comunità internazionale prede atto della diffusa permanenza di pregiudizi e di discriminazioni nella rappresentazione di genere nei mass media e stila l'elenco delle attività che sono richieste ai governi per superare gli stereotipi di genere.
Eccone alcuni passaggi salienti:
1. promuovere la ricerca e la formazione delle donne nel campo delle comunicazioni affinché possano, con il loro contributo ed intervento professionale rimediare alle scelte editoriali che danneggiano l'immagine femminile;
2. promuovere la formazione di comitati di controllo, formati da donne, dove si osservano i media e si raccolgono proteste e reclami;
3. promuovere il pluralismo culturale e la creatività al fine di dar conto delle numerose realtà che caratterizzano la donna, allontanandosi dai modelli steriotipati;
4. promuovere, a tutti i livelli istituzionali e non, l'innalzamento del livello di consapevolezza delle tematiche di genere e delle tematiche degli stereotipi sessisti.
Nel nostro Paese la Convenzione CEDAW è lettera morta. Ecco cosa emerge dalle raccomandazioni del Comitato Cedaw all'Italia del 26 luglio 2011:
“…[...]il Comitato esprime il proprio disappunto circa il fatto che lo Stato-membro non abbia sviluppato un programma completo e coordinato per combattere l’accettazione generalizzata di ruoli stereotipati tra uomo e donna, come raccomandato nelle precedenti Osservazioni Conclusive del Comitato. Il Comitato rimane profondamente preoccupato per la rappresentazione della donna quale oggetto sessuale e per gli stereotipi circa i ruoli e le responsabilità dell’uomo e della donna nella famiglia e nella società. Tali stereotipi, contenuti anche nelle dichiarazioni pubbliche rese dai politici, minano la condizione sociale della donna, come emerge dalla posizione svantaggiata delle donne in una serie di settori, incluso il mercato del lavoro e l’accesso alla vita politica e alle cariche decisionali, condizionano le scelte delle donne nei loro studi ed in ambito professionale e comportano che le politiche e le strategie adottate generino risultati ed impatti diseguali tra uomini e donne.”