di Elisa Zanetti
Sacchetti dell’immondizia dotati di microchip, supermercati alla spina, un centro per riparare oggetti che altrimenti finirebbero in discarica, e uno di ricerca per ideare prodotti non inquinanti. Tutto questo accade a Capànnori, in Provincia di Lucca, Comune che entro il 2020 smetterà di produrre spazzatura.
Prevenire, ridurre, riparare, compostare e poi nel caso riciclare. È questa la filosofia di Capànnori, comune di poco più che 46mila abitanti in provincia di Lucca, dove cittadini e amministrazione comunale stanno cercando di portare a quota zero la produzione di rifiuti nel territorio. Dal 2007 infatti Capannori ha aderito a Zero Waste, Rifiuti Zero, un progetto promosso da Paul Connettt, professore di chimica e tossicologia presso la St. Lawrence University di New York, che prevede l’abbattimento totale della produzione di spazzatura e l’abolizione dell’uso degli inceneritori.
Pur vantando ad oggi una percentuale di raccolta differenziata pari al 73%, contro una media nazionale del 33,6% (dati rapporto Ispra 2011), ai capannoresi questo non sembra bastare: «Riciclare è importante, ma non è sufficiente – spiega a Linkiesta Rossano Ercolini, coordinatore dell’osservatorio Rifiuti Zero – il nostro obiettivo è quello di ridurre al minimo la produzione di spazzatura: se non creiamo rifiuti non occorrerà nemmeno riciclarli». Il risultato da raggiungere è quota zero entro il 2020 e sembra proprio che il Comune sia sulla strada giusta: da un po’ infatti a Capannori le lancette del tempo sono tornate al 1995 con una produzione di rifiuti pari ai livelli di oltre 15 anni fa. «Siamo molto orgogliosi di questo risultato, in molti comuni del resto d’Italia, nonostante gli effetti della crisi che hanno tendenzialmente portato a una battuta d’arresto, la quantità di rifiuti prodotti continua a crescere».
Per portare avanti al meglio Rifiuti Zero, a Capannori è nato un centro di ricerca e riprogettazione che si occupa di analizzare i materiali conferiti nel “sacco nero”, ovvero quello della raccolta indifferenziata. «Guardare dentro i sacchetti – prosegue Ercolini – ci permette di capire se ci sono stati “errori di comunicazione” per quanto riguarda i rifiuti conferibili o meno e di individuare quali sono i rifiuti più presenti fra i non riciclabili per poi elaborare possibili soluzioni. Il residuo, ciò che non può essere riciclato, va reso visibile, perché rappresenta una patologia del sistema, un errore di progettazione cui porre rimedio».
Scarpe, tessuti, giocattoli, piccoli elettrodomestici e utensili di metallo sono fra le presenze fisse del sacco nero dei capannoresi e così, per ridurre la loro presenza, il comune ha lanciato le cosiddette “soffitte in piazza”, una sorta di mercatino delle pulci dove tutti possono vendere oggetti che altrimenti butterebbero. Da ottobre è stato inoltre inaugurato un centro di riparazione e riuso, che permette il recupero e la redistribuzione di oggetti destinati alla discarica. «Il centro si trova proprio accanto all’isola ecologica – spiega Ercolini – in questo modo i nostri operatori con “un’occhiata clinica” possono salvare dalla discarica oggetti che possono invece avere una seconda vita. Si riparano bici, elettrodomestici e si recuperano vestiti che poi vengono dati a chi ne ha bisogno».
Per quello che riguarda invece i prodotti non riciclabili, il comitato locale di Rifiuti Zero si sta muovendo su un altro fronte, contattando direttamente i produttori e cercando di favorire una loro maggiore responsabilizzazione. «Abbiamo aperto un tavolo con Aiipa (l’associazione italiana industrie prodotti alimentari) per risolvere il problema della capsule da caffè, in modo da rendere la plastica dell’involucro separabile dalla polvere; con Ecobimbi stiamo lavorando a un prototipo di pannolino riutilizzabile, mentre con l’editore Pizzardi stiamo cercando di produrre delle figurine riciclabili. Infine – conclude Ercolini – stiamo cercando di coinvolgere un centro calzaturiero nella produzione di “calzature ecologiche”, fatte con materiali biodegradabili e riciclabili e senza l’uso di colle tossiche».
Tra i progetti già attivi “la spesa alla spina”: detersivi, bibite, pasta, biscotti e molti altri prodotti possono essere comprati riutilizzando i propri contenitori, mentre da gennaio è partita la sperimentazione di sacchetti dell’immondizia dotati di microchip. In questo modo è possibile controllare quante volte l’utente mette in strada il sacco nero della raccolta indifferenziata e in base al numero di esposizioni calcolare la tassa sui rifiuti, incentivando così il compostaggio domestico dei rifiuti organici e una sempre più attenta raccolta differenziata.
Attualmente i comuni che hanno aderito a Rifiuti Zero sono 106 e se fino al 2010 il loro numero era decisamente modesto, a partire dal 2011, al ritmo di quattro Comuni al mese, le iscrizioni sono aumentate velocemente, arrivando così a toccare un totale di più di due milioni e 800mila cittadini coinvolti. Ad eccezione di Napoli che l'anno scorso ha aderito a Rifiuti Zero, e di Parma, che da pochissimi giorni ha scelto di sposare questa causa, all'appello mancano però le grandi città italiane. Una strada troppo in salita per i centri urbani? Forse, ma di certo non impraticabile se si pensa che all’estero città come San Francisco hanno preso parte al progetto del professor Connett raggiungendo una percentuale del 78% di raccolta differenziata.
da Linkiesta.it