121108grilloqualunqueÈ in libreria soltanto da due settimane, ma ha già attirato l’attenzione di quotidiani, blog, radio, tivù. Complice il successo dei 5 Stelle in Sicilia, certo, ma soprattutto grazie all’analisi profonda e multiforme che Giuliano Santoro ha dedicato a Grillo e al suo movimento. Un’analisi che riesce ad essere, nello stesso tempo, mirata e di ampio respiro, capace di prendere il largo a partire dal suo oggetto di indagine, per illuminare temi e questioni che spesso hanno fatto capolino anche qui su Giap: dalla “cultura di destra” al feticismo digitale, dal razzismo alle narrazioni tossiche.

Nei ringraziamenti finali, l’autore cita per nickname alcuni giapster molto assidui e in generale tutta la comunità che si ritrova in questo blog, per avergli fornito un terreno di confronto. L’intervista che segue vuole essere anche un’opportunità per riprendere e rilanciare la discussione.

Una delle caratteristiche più interessanti del libro è la sua capacità di smontare alcune presunte “novità” del Movimento 5 Stelle, per tracciarne la genealogia e svelarne il contenuto ideologico. Al netto di questo prezioso lavoro, resta però uno scarto davvero inedito per il panorama politico italiano: quello di un movimento che partecipa alle elezioni senza candidare la sua personalità più in vista. Questo aspetto mi pare una novità anche rispetto al populismo, che tu definisci come “la capacità da parte di un leader di costruirsi attorno un «popolo» che gli corrisponda in pieno, mortificando le differenze e appiattendo le ricchezze”. Il leader populista, al momento delle elezioni, diventa così l’insostituibile candidato della sua gente. Grillo invece si sottrae, fa il “garante” del movimento: che ne pensi di questa sua rottura del rapporto classico tra capo e popolo?

Lo scarto di cui parli è uno dei tanti paradossi del grillismo. Provo a descriverlo: nell’era della crisi della rappresentanza politica, e della sua incapacità – diciamo così – di far da contrappeso al mercato, ecco che spunta un movimento carismatico che in nome della “democrazia diretta” (concetto che, come spiego nel libro, viene utilizzato come feticcio ideologico) punta tutto sulle elezioni per costruire il rinnovamento. È una contraddizione non da poco: Grillo all’inizio degli Anni Zero affrontava i grandi temi della globalizzazione, del global warming e della guerra spiegandoci che contava di più il modo in cui si faceva la spesa che la scheda che si metteva nell’urna. Era un modo per ribadire che il vero potere si trovava altrove, nel mercato e nelle multinazionali, e che i partiti erano solo sovrastruttura. E invece, negli ultimi due anni, siamo arrivati al punto che il Movimento 5 Stelle non fa altro che organizzare campagne elettorali permanenti, compilare liste di candidati, polemizzare con gli altri partiti. Paradosso nel paradosso: Grillo – capo carismatico, trascinatore di masse e fondatore del Movimento – almeno per il momento non si candida e anzi trae forza da questo non mescolarsi con “la politica”. Ciò forse avviene perché in questo modo è come se tutti i candidati fossero Grillo. A meno che qualcuno non sia così ingenuo da pensare che i voti li prendono i cittadini che spauriti compaiono a fare da scenografia ai comizi-spettacolo del comico-leader.

Marco Vagnozzi, consigliere 5 Stelle a Parma, ha dichiarato che “Beppe è il padre del Movimento”. Un padre che a volte si comporta da padrone (il simbolo del movimento è di sua proprietà) e altre da nonno (non partecipa alla contesa elettorale – tipico atteggiamento del vecchio che “ha già dato” – e manda i figli allo sbaraglio). Su Giap abbiamo a lungo discusso intorno alla “evaporazione del padre” nella politica italiana. Una politica nella quale non è possibile rintracciare in maniera chiara le due metafore familiari con cui Lakoff spiega il bipolarismo americano: da una parte il Padre Severo – cioè il partito repubblicano – dall’altra i Genitori Comprensivi – ovvero i Democratici.
Abbiamo visto come Berlusconi ha colmato questo vuoto con il vuoto del godimento obbligatorio. E Grillo? Che tipo di (non-)padre è? Un padre adottivo? Un tutore di orfani?

Tentando di illustrare cosa ci fosse davvero all’origine di quella «comunità immaginata» che chiamiamo nazione moderna, Benedict Anderson ha spiegato che essa è un «artefatto culturale di un particolare tipo» che rimette in moto anche i meccanismi di appartenenza ancestrali (ed escludenti) che tengono in piedi la famiglia. Dunque, la nazione di Anderson viene descritta come «organismo sociologico che si muove ordinatamente in un tempo vuoto e omogeneo» e funziona come la famiglia allargata ma in fondo tradizionalista di Papi-Berlusconi: attraversa le differenze e inventa storie e tradizioni a uso e consumo del consenso.
Giustamente tu ricordi come il linguista George Lakoff abbia sostenuto che questo richiamarsi ai rapporti familiari appartiene a una sfera inconscia molto profonda, tanto che la politica conservatrice e quella progressista sarebbero legate a due modelli diversi di vita coniugale.

da www.wumingfoundation.com

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