121116gabrieldi Redazione il Fatto quotidiano
In tempo di celebrazioni, non poteva mancare quella a Peter Gabriel. La campagna promozionale volta alla ricorrenza del venticinquennale di “So” non lascia indifferenti: giornali, tv, web, tutti uniti appassionatamente nel declamare il quarto di secolo di un disco fondamentale uscito negli anni 80.
Sai che novità! Sono cose dette e ridette, abili soltanto nel produrre un giro di affari più che sostanzioso. “So” lo trovate su Amazon, da circa un mese, in diverse versioni, la più cara (al costo di 103 euro) include “la qualunque” su quanto prodotto nel 1986 a margine della sessione originaria. Ebbene, nel sostenere la genialità di Peter Gabriel si rischia di cadere nella trappola dell’ovvietà; la ricerca dell’equilibrio in questi casi non è facile ma facendo attenzione, si scopre che sono diversi i motivi per celebrarlo.

L’album in questione è, in effetti, uno spartiacque per lui e, ancor più, per il periodo in cui esce poiché oltre a traghettare l’artista nel mare magnum della musica leggera, nobilita il tratto di un genere intero: le implicazioni socio culturali incluse nell’operazione scuotono e non poco il mondo della musica.

A quei tempi il pop scivolava fatalmente nei meandri infiniti dell’abisso più profondo. Tra il 1985 e il 1988, una moltitudine di ciarlatani “in pantacalze e spallotti” soffocava qualsiasi velleità con suoni sintetici “di tastiere orribilmente violate”; sonorità che ancora oggi gridano vendetta, soprattutto facendo riferimento a quanto invece – un decennio prima – gli stessi synth riuscirono a produrre (si faccia riferimento per favore a Brian Eno).
Concentrando l’attenzione in casa nostra poi, non si può certo asserire che la situazione tendesse al meglio: verso la metà degli anni 80 gli ascolti comuni vennero inquinati dalla volgarità di “trasmissioni assassine”. Se a Carlo Massarini con Mister Fantasy – tra il 1981/84 – riuscì la magia propiziatoria di educare “la giovane Italia” alle oniriche visioni dei Talking Heads, a Claudio Cecchetto con DeeJay Television – tra il 1985/88 – spuntò il sortilegio nefasto di corrompere “nuove generazioni” alle mediocri percezioni dei Via Verdi. Si chiamava “cultura del nulla”, spopolava su Italia 1 e portava con sé, un certo carico di cattivi presagi.

Capito l’antifona? Ebbene, si torni ora a Gabriel. Sostenere che un disco come So in mezzo ad una valle di lacrime di siffatta portata riesca a ben figurare, è il frutto di un ennesimo luogo comune! Nulla si vuol togliere “a quella freschezza manifesta” ma si sposti l’attenzione su quanto realmente rilevante concepito dall’ex Genesis: i primi tre album – ad esempio – lasciano senza fiato (“1”,”2”,”3”), per non parlare di “Security 4” (oppure la colonna sonora di Birdy) e a tal proposito, volendo puntualizzare, le celebrazioni avrebbero dovuto riguardare proprio i trent’anni tondi del quarto album, e non i 26 celati di So.
Non è questo lo spazio per recensirli ma è chiaro che, in quel periodo, Gabriel viveva fuori da ogni possibile compromesso; se così non fosse, “non avrebbe mollato i Genesis” al massimo del loro splendore per cercare (e trovare) l’ignoto. Diciamolo pure, la libertà di esprimersi è un atto dovuto alla genialità che lo contraddistingue ma se questo è vero, allora il testamento reale resta (secondo parametri personali) “Passion”, la colonna sonora del film di Martin Scorsese uscita nel 1989.

La noia riflessa “di metafore recensorie” non trova spazio nemmeno in tale caso. Mi si lasci però ribadire l’ultima grande banalità: Passion consacra definitivamente “l’uomo di Bath” nell’olimpo dei più grandi di sempre e spalanca definitivamente le porte al connubio esistente tuttora tra world music ed elettronica. Un capolavoro assoluto, da portarsi appresso sulla classica isola deserta.
A seguire altre produzioni, “Us”, “Ovo” e “Up” appartengono alla terra di mezzo, rigorosamente da attraversare con passi lunghi e ben distesi; pur rassicurando, il trittico lascia – intatto – “il tempo che trova”.
Ai giorni nostri Peter che combina? Vive certamente di luce riflessa, anche perché le maschere, negli anni, sono state riposte ed è pure terminato “il tempo della muta”. Quel che rimane è da ricercare nella gloria di canzoni eterne, ancora oggi capaci di agitare le corde dell’anima, custodite anzitempo all’interno di raccolte sinfoniche, oppure in concerti epocali (si faccia riferimento per favore all’Arena di Verona nel 2010), può bastare.

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