121130ostiadi Antonello Sotgia
Ostia. La lunga striscia di asfalto che corre parallela al mare, simile più che a un boulevard ad una trincea che, ad est, s’inspessisce con un alto bordo edilizio e, ad ovest, con quell’altrettanto invasivo bordo di manufatti e attrezzature balneari che murano mare e quel che resta della spiaggia. Nader e Stefano devono scavalcare una recinzione, arrampicarsi su di un tetto di una cabina e finalmente gettare uno sguardo lontano verso l’orizzonte d’acqua. Non lo possono fare dalla strada. Da qui il mare, anche se vicinissimo, non si vede.
Guardano il mare, ma per non più di un attimo, condannati come sono a interessarsi solo a quello che in quel medesimo momento possono vedere e toccare.

La loro vita scorre in giornate di assoluta linearità sovrapposte a quella stessa striscia di asfalto dove inanellano, con la medesima indifferenza, la rapina a danno di una prostituta al furto di un motorino, la scuola al “matinè” in discoteca, tentativi d’innamoramento a rabbia, a desideri. Tutto da prendere e consumare immediatamente senza farsi troppe domande.
Neppure con se stessi. Nader 16 anni, nato in Egitto e in Italia da dieci, si ribella ai convincimenti religiosi della famiglia che non vogliono che abbia una relazione con una coetanea. In famiglia parla ostentatamente con la madre non in arabo, ma in italiano dicendo che se “loro” ( cioè noi) lo facciamo, perché impedire a lui di scopare a 16 anni.
Perché lui a Brigitte - una coetanea bionda che vive in una famiglia romana, dove al padre regalano per il compleanno un potente fucile a pompa immediatamente inaugurato nel terrazzo condominiale in uno di quei cortili infiniti murati dagli intensivi in zona San Giovanni - vuole bene. Va a trovarla in metropolitana, esile filo che lo porta fuori da Ostia, per regalarle un anello comprato con i soldi della rapina fatta subito prima di entrare a scuola lo stesso giorno.
Stefano, suo coetaneo non riesce a capacitarsi di essere stato “accannato dalla pischella”. Vive questo problema come un affronto. E’ impossibile che lei, una ragazza, possa scegliere secondo i propri desideri, dirgli “non mi piaci più! hai pure l’apparecchio”. Lui ribatte che l’apparecchio l’aveva anche prima. Nulla! lei lo lascia per sciamare lungo via del Corso a Roma risucchiata dalle amiche e dalla loro solidarietà.
Nader e Stefano, di amici non sembrano averli, non parlano neppure tra loro dei propri problemi, meno che mai legano con altri ragazzi. Non hanno una banda, né un gruppo. Si aggirano in coppia nei mucchi dei giovani che frequentano, prendendo da ognuno le cose che al momento possono servire: da un informazione, al convincere un coetaneo a fingersi cliente di un prostituta da rapinare, all’acquisto a buon mercato di una pistola da un suonatore di batteria che trova il proprio palcoscenico sonoro su uno di quei ponti del Laurentino risparmiato dalla distruzione di Veltroni che reputava l’architettura essere causa del disagio sociale.
Il ritmo della batteria è, insieme a una canzone (Nino d’Angelo), la sola musica che attraversa l’intero film. I due i non sentono musica, né smanettano su qualche aggeggio elettronico, né mai telefonano. Non ci sono smartphone, telefonini, autoradio, computer. Quando devono trovarsi o trovare qualcuno o, è lo stesso, scappare da qualcuno (una banda di rumeni che vogliono vendicare uno sgarro fatto a un loro connazionale) camminano in un Ostia fotografata da Daniele Ciprì con sciabolate di luci radenti, a disegnare come le barriere di case e stabilimenti facciano filtrare gelide lamine luminose proprie di uno spazio carcerario.
I ragazzi si cercano e, per trovarsi, si attaccano al citofono delle loro case. Si sta sulla striscia d’asfalto, si va su e giù tra due polarità: dall’idroscalo (a ponente) dove la torre michelangiolesca non riesce a riscattare l’immondezzaio in cui è stato assassinato Pasolini, alla scuola (a levante) dove, per loro, Ostia finisce ed inizia quella metropoli a cui non riescono ad avvicinarsi, bloccati da una pineta morente abitata solo da prostitute.
I due le disprezzano come disprezzano ogni donna che esprima una scelta. Nader può offendere la madre, ma non tollerare che il suo amico possa baciare sua sorella, fino a sparargli ricorrendolo su quell’arenile nero e catramoso dell’idroscalo. Lo mancherà e le strade dei due si divideranno. Solitudini destinate a continuare e a estendersi. Nader non vuole più tornare in quella casa dove i suoi “so proprio arabi”.
La famiglia forse l’aspetta. Ma tace, pranzando con il televisore acceso collegato ad Al jazeera, sentendo le notizie del protagonismo delle piazze della primavera araba. Nessun commento, nessuna emozione, nessun fremito. L’Egitto e Ostia non sono più, per loro, due mondi, neppure due luoghi geografici:sono due immense solitudini che non possono comunicare. Siamo ad Ostia nel 2011.
Solo un anno dopo, con sette scuole occupate, gli studenti di Ostia, alla testa delle mobilitazioni studentesche del novembre di quest’anno contro il governo, la scuola e la precarietà, hanno portato a Roma le loro passioni.
Con loro i tanti (anche Stefano e Nader che avrà smesso di coprirsi gli occhi con improbabili lenti a contatto azzurre ascoltando Brigitte che l’invita a” falla finita co’ ste lenti” ?) che hanno deciso di trascinare giù il cielo, lungo quella striscia di asfalto troppo esile a contenere la loro ribellione.

da www.dinamopress.it

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