numeridi Aldo Carra
I dati più recenti sulla disoccupazione sono drammatici, ma la situazione reale lo è ancora di più. Il tasso di disoccupazione totale a settembre 2012 è salito al 10,8 per cento, quello giovanile al 35,1 per cento, mentre ogni mese che passa si tocca un nuovo record storico. Nella crisi che attraversa i paesi sviluppati, l’aumento della disoccupazione non è solo un fenomeno italiano: nell’Europa a 27 essa ha raggiunto il 10,6 per cento e nell’area Euro è arrivata fino all’11,6. Stando a questi dati, in Italia ci sarebbe quindi una disoccupazione uguale a quella dell’Europa o addirittura inferiore a quella dell’area Euro.

È così? Così sembrerebbe, ma così invece non è, perché i dati ufficiali che misurano la disoccupazione non dicono tutto. E poiché non è giusto che una situazione drammatica e che tende ad aggravarsi sempre di più non venga rappresentata nella sua giusta dimensione, pensiamo sia indispensabile fare chiarezza sul modo in cui si misurano forze di lavoro e disoccupazione e avanzare proposte concrete perché vengano adottati nuovi criteri. Siamo sollecitati a farlo anche da un articolo di Andrea Fumagalli apparso di recente su il manifesto dal titolo “Disoccupazione al 19 per cento. Ecco come l’Istat nasconde i dati” e dalla replica del direttore della comunicazione dell’Istat, che al contrario sostiene che i dati ci sono e sono pubblici.
Partiamo subito da una premessa per evitare ogni fraintendimento: i dati ufficiali non sono certamente falsi e sono calcolati con i criteri dettati da Eurostat e doverosamente seguiti dall’Istat. Solo che è venuto il momento di dire che quei criteri non sono più adeguati e che debbono essere rivisti e che l’Italia, per le ragioni che diremo, è tra i paesi più interessati a questa revisione. Ma andiamo con ordine, ricollegandoci alle analisi in precedenza condotte su Rassegna, nelle quali abbiamo più volte sostenuto l’inadeguatezza della misurazione della disoccupazione. La definizione di disoccupazione adottata da Eurostat comprende le persone che hanno effettuato un’azione attiva di ricerca del lavoro nelle quattro settimane che precedono la rilevazione.
È chiaro che in un mercato del lavoro in cui i vecchi canali di collocamento non sono più ritenuti utili per trovare lavoro, in cui la maggior parte delle persone trova un’occupazione ricorrendo a canali di conoscenza, in cui le attività professionali meglio remunerate passano di padre in figlio, in cui, soprattutto, è così difficile trovare lavoro, quella definizione è fortemente restrittiva ed esclude tante persone che il lavoro lo cercano e lo vogliono, ma che in molti casi non sanno nemmeno quale azione attiva fare per trovarlo. Questo lo sanno anche gli istituti di statistica, che, oltre a misurare la cosiddetta popolazione attiva (occupati e disoccupati), da alcuni anni hanno cominciato a calcolare anche quanti tra la popolazione “inattiva” sono disponibili a lavorare, anche se non stanno cercando attivamente lavoro (nel 2011 erano 2 milioni e 897.000 più dei disoccupati dichiarati, che erano 2 milioni e 108.000), e anche quanti lo cercano, ma non sono temporaneamente disponibili a lavorare (nel 2011 erano 121.000).
Queste due aree di popolazione classificate come inattive costituiscono, in realtà, un serbatoio di “forze di lavoro potenziali”, che sono più vicine alla condizione di disoccupati che a quella di inattivi: condizione, quest’ultima, che comprende pensionati, casalinghe e studenti. C’è poi addirittura una terza fascia di persone che lavorano part time, ma che vorrebbero lavorare di più (nel 2011 erano 451.000). Queste tre categorie di persone insieme ammontavano nel 2011 a tre milioni e mezzo. Poiché i disoccupati veri e propri erano due milioni e 100.000, ciò significa che l’area della disoccupazione intesa in maniera meno restrittiva superava i 5 milioni e mezzo di persone e oggi, nel 2012, è certamente sui 6 milioni. Includendo questa disoccupazione oggi trascurata tra i disoccupati (i sottoccupati part time si possono calcolare al 50 per cento) e tra le forze di lavoro, il tasso di disoccupazione da cui siamo partiti cambia notevolmente: nel 2011 quello ufficiale era pari all’8,4 per cento, con i nuovi criteri adottati risulta essere in realtà pari al 19 per cento. Una bella differenza, certo. Anche se si può obiettare che questo vale anche per gli altri paesi e che, quindi, il confronto non cambia.
Non è proprio così, ed è per questo che prima abbiamo detto che l’Italia è tra i paesi più interessati a modificare i criteri di calcolo della disoccupazione. Il perché è evidente nel grafico in pagina: con la misurazione attuale, il tasso di attività (rapporto forze di lavoro – occupati più disoccupati – e popolazione da 15 a 74 anni) è di gran lunga più basso di quello di tutti gli altri paesi. Come si spiega? Con il fatto che i fenomeni prima accennati sui canali di accesso al lavoro sono in Italia molto più accentuati che negli altri paesi (non a caso, siamo in coda nella graduatoria della mobilità sociale) e queste strozzature fanno sì che molte persone che vorrebbero lavorare, più che cercare attivamente lavoro, aspettano che si presenti l’occasione buona.
Non si potrebbe spiegare altrimenti il fatto che in Italia i “disponibili a lavorare che non cercano lavoro” sono ben il 12 per cento rispetto alle forze di lavoro, mentre in Europa sono solo il 3,6 per cento, in Francia l’1,1 per cento, in Germania l’1,4 per cento, in Spagna il 4,2 per cento. È evidente perciò come in questa categoria si annidi, in Italia più che altrove, una vasta realtà di persone che non cercano lavoro perché scoraggiate dalle difficoltà a trovarlo: esse non possono certo essere considerate inattive. L’anomalia italiana non è, quindi, di avere meno popolazione attiva (cosa che non sarebbe spiegabile), ma di avere un mercato del lavoro più rigido e più scoraggiante. A riprova di ciò, basta guardare ancora il grafico, da cui emerge che considerando tra le forze di lavoro anche le tre categorie prima escluse e ricalcolando i tassi di attività, l’anomalia italiana si attenua fortemente: le persone che lavorano o sono disponibili a lavorare costituiscono una percentuale pressoché uguale a quella che si registra in Francia e molto più vicina a quella degli altri paesi.
L’attuale metodologia di calcolo dei disoccupati fornisce, insomma, un’immagine distorta soprattutto della realtà italiana ed è per questo che, secondo noi, l’Italia dovrebbe essere più interessata degli altri paesi a una revisione dei criteri di calcolo della disoccupazione, che includa le tre aree oggi escluse. Per questo pensiamo si possa formalizzare la seguente proposta: ricalcolare i tassi di disoccupazione inserendo le persone disposte a lavorare anche se non risulta stiano cercando attivamente lavoro. Così facendo, i confronti europei sarebbero quelli presenti nella tavola a fianco e i tassi di disoccupazione così risultanti darebbero una visione più corretta delle realtà dei diversi paesi europee.

da Rassegna.it

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