di Alba Sasso
Si può dire che ogni giorno ce n'è una. Dalla lettura della legge di stabilità, approvata alla fine dello scorso anno, emergono aspetti inquietanti per quel che riguarda la scuola. In particolare laddove si dice che, a partire dal 2014, «i risultati conseguiti dalle singole istituzioni sono presi in considerazione ai fini della distribuzione delle risorse per il funzionamento». Frase preoccupante, anzi decisamente minacciosa, poiché sembra preludere a una nuova massiccia ondata di tagli.
Tagli tipo Tremonti-Gelmini, e che il governo Monti sembra voler perpetuare nella legge di stabilità. A cosa possono approdare infatti intenzioni così vaghe se non a tagliare i finanziamenti agli istituti considerati poco meritevoli?
Siamo innanzitutto di fronte a un aggiramento completo della lettera e dello spirito della Costituzione, che impegna la Repubblica a istituire scuole statali di ogni ordine e grado e quindi a garantirne il funzionamento. Per tutte, senza altri criteri. I padri costituenti non si ponevano il problema del merito o delle qualità dell'insegnamento, cosa che attiene ad altre sfere dell'amministrare. Intendevano stabilire un principio assoluto. Così come la stessa Costituzione garantisce libertà di espressione e di insegnamento, e stabilisce che il diritto allo studio debba essere appannaggio di tutti, indifferentemente. Un proposito, quello nella legge di stabilità, che pone immediatamente interrogativi ineludibili: chi decide il valore dei risultati delle tante istituzioni scolastiche? Con quali strumenti di valutazione? Secondo quali criteri? Una scuola disagiata di una periferia abbandonata che riesca a recuperare alla scuola dell'obbligo la maggioranza dei suoi ragazzi come è valutabile rispetto a una scuola centrale di una metropoli, dove i ragazzi hanno ogni possibile opportunità sociale e culturale? Dobbiamo affidarci alle prove già esistenti? Creare macchinose commissioni di valutazione formate chissà secondo quali criteri e con quali poteri? E soprattutto perché questa vecchissima idea della «gara», che non ha mai funzionato in nessuna parte del mondo? Per continuare a tagliare complessivamente i finanziamenti alla scuola, ma con una certa «eleganza»?
Poche idee ma confuse, avrebbe commentato Flaiano. Tranne una: una sorta di fiume carsico del pensiero scolastico: la scuola non è trattata come una risorsa, un bene comune prezioso, un investimento sul futuro e sull'economia complessiva dal paese. Riemerge, anche con i governi tecnici, un'idea della scuola come problema, anzi «il» problema, insieme ai pensionati naturalmente, a cui bisogna attingere per grattare le ultime risorse disponibili. La realtà che si incontra ogni giorno parla invece di una scuola di qualità nonostante tutto; di un patrimonio di intelligenze e creatività senza eguali, di insegnanti motivati, di famiglie coinvolte; di un «sistema» che, nel suo complesso e nonostante tutto, continua a funzionare.
Introdurre criteri tanto astratti quanto pericolosi di una meritocrazia senza definizioni e senza controlli rischia di fare danni ancora peggiori di quelli procurati dai tagli selvaggi di Moratti e Gelmini. Rischia di consegnare la scuola pubblica all'arbitrio e all'indeterminatezza, allo scadimento della qualità in nome di un'inevitabile competizione senza contenuti. È un rischio troppo grande per non meritare una mobilitazione massiccia di tutto quel mondo, perché la Scuola con la maiuscola sia inserita ai primi posti di ogni agenda governativa futura. Sarà proprio questa priorità a determinare la qualità di quell'agenda, il suo valore reale, le conseguenti scelte di milioni di elettori ed elettrici.
Il Manifesto - 08.01.13