unioneeuropeadi Vladimiro Giacchè
Nella prima mattinata di ieri, dopo mesi di negoziati e 14 ore filate di trattativa finale, i ministri delle finanze dell’Unione Europea hanno raggiunto un accordo che apre la strada alla vigilanza centralizzata della Bce sulle banche europee. Anche questo accordo, come molte delle più recenti decisioni dell’Unione Europea, può essere letto in modi molto diversi.
La lettura confortante è questa. L’Unione Europea ha fatto un passo avanti decisivo verso l’Unione Bancaria: regole comuni per tutte le banche europee e, soprattutto, meccanismi che possono consentire aiuti europei (e non più su base nazionale) alle banche in difficoltà.

In questo modo si romperebbe il circolo vizioso tra crisi del debito pubblico e crisi bancarie, e soprattutto si invertirebbe quella balcanizzazione finanziaria dell’Europa che oggi rappresenta una delle principali minacce alla sopravvivenza stessa dell’euro: quel processo, cioè, per cui i sistemi finanziari si rinazionalizzano. Con alcuni grandi paesi (in particolare Germania e Francia) che riportano a casa i soldi che negli anni scorsi avevano investito negli altri paesi dell’area valutaria, e con le condizioni di credito che tornano a differenziarsi su base nazionale (per cui, ad es., oggi un’impresa che chiede un prestito in Italia lo ottiene a interessi più alti del 3-4% rispetto alla sua concorrente tedesca).
Purtroppo, però, le decisioni di ieri possono anche essere viste da una diversa angolatura. Molto meno gradevole. In concreto, cosa prevede l’accordo? Che ricadranno sotto la supervisione bancaria europea unicamente le banche che hanno attività superiori ai 30 miliardi di euro o i cui attivi comunque superino il 20% del prodotto interno lordo del loro paese. È passata la linea della Germania: sono mesi, infatti, che il ministro delle finanze tedesco Schäuble chiede che la sorveglianza europea valga soltanto per pochissime grandi banche. Non è una richiesta disinteressata. La Germania ha pochissime banche di grandi dimensioni (meno della Francia), e moltissime banche di piccole dimensioni: le Sparkassen (da sempre vicine alla Cdu), le Landesbanken e le Volksbanken. Molte sono in cattive acque. E, soprattutto, la qualità dei titoli e dei crediti che hanno in portafoglio è un gigantesco punto interrogativo. Il governo tedesco è riuscito a evitare che la vigilanza europea guardi nei libri di queste banche. Il motivo addotto per giustificare questa posizione, e cioè il fatto che le banche piccole non esprimerebbero rischi sistemici, è insussistente: Northern Rock non era una grande banca, ma l’o ndata di panico che il suo fallimento suscitò ebbe effetti sistemici; del resto, gli effetti sistemici del fallimento di molte banche di piccole e medie dimensioni è oggi ben chiaro in Spagna. Ma, si dirà, almeno il grande colosso bancario tedesco, la Deutsche Bank, con le sue attività di oltre 2.240 miliardi di euro, pari all’80% del prodotto interno lordo della Germania, potrà essere controllato da Bruxelles. Ed è quindi possibile che gli venga finalmente richiesto l’au - mento di capitale necessario per rendere meno esplosivi i rischi che ha assunto e che continua ad assumere. Ma è proprio così? In realtà, l’accordo prevede che la supervisione bancaria parta nel marzo 2014, ma tale scadenza non è ultimativa. Ed è facile prevedere che non sarà rispettata.
La verità, infatti, è che la Germania sta cercando di guadagnare tempo. Che oggi gioca a suo favore. I costi attuali di raccolta per le banche tedesche seguono da vicino ai rendimenti dei titoli di Stato tedeschi. Con i titoli di Stato negativi in termini reali (cioè tenendo conto dell’inflazione: ieri i decennali rendevano l’1,33 per cento), e nel caso dei titoli a due anni anche in termini nominali (-0,06 per cento il rendimento attuale), le banche tedesche possono rafforzare il loro capitale praticamente a costo zero, tentando di risolvere così i loro problemi.
Mentre si aggravano le condizioni delle banche dei paesi cosiddetti “periferici ”, alle prese con un costo di raccolta elevato (a causa della crisi del debito pubblico) e con i crediti inesigibili derivanti dalle pessime condizioni dell’economia (a causa delle manovre di austerity realizzate per risolvere la crisi del debito pubblico). Ovviamente, quando tutto questo sfocerà in vere e proprie crisi bancarie, i malcapitati dovranno anche sorbirsi le prediche di tedeschi e autorità europee sulla necessità di migliorare la gestione delle proprie banche.
Comunque vada, la decisione di ieri sollecita inevitabilmente qualche interrogativo. In particolare: perché l’integrazione europea procede sempre e soltanto secondo i ritmi e le (a)simmetrie dettati dalla Germania? Non sarebbe il caso di cambiare finalmente strada?

da Pubblico

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