di Gaetano Azzariti
È tempo di primarie. Sembra proprio che i partiti esangui della sinistra abbiano trovato una formula magica per superare d'emblée la crisi d'identità nel quale versa l'intero sistema politico. In fondo la soluzione di tutti i problemi è apparsa la più semplice: chiamare a raccolta il popolo della sinistra. E questo ha risposto in massa.
Inebriati dal buon risultato, le primarie nel campo progressista stanno diventando la regola aurea per la selezione del ceto politico. È bene che sia così? Saranno queste a salvare i partiti e quanto resta della sinistra? Forse è opportuna qualche riflessione di sistema che guardi oltre al successo del contingente.
Cominciamo con il dire, allora, che le primarie sono state per la sinistra una scelta obbligata. "Non potevano non farsi", vista l'incapacità delle forze politiche di dare soluzione ai conflitti interni, in particolare tra Renzi e Bersani, ma, più in generale, tra le diverse anime che coesistono senza integrarsi all'interno del Pd.
Così è apparso anche un modo in fondo indolore per dare una soluzione al problema delle alleanze - tra Bersani e Vendola - senza perciò dovere definire un compromesso politico, bensì potendosi limitare ad una generica carta d'intenti e all'accettazione di regole procedurali. Dunque, una soluzione imposta dalla debolezza, non invece un atto di forza.
È giusto anche dire che le primarie hanno lanciato un forte segnale alle organizzazioni politiche. A fronte della loro impotenza si dimostra che esiste ancora un popolo che continua a dargli fiducia. Alla crisi dei partiti, dunque, non sembra corrisponda il superamento della forma partito. Ci si dovrebbe a questo punto però chiedere se la politica dei gazebo sia in grado di sostituirsi alla politica dei partiti, se le scelte, non solo degli uomini, ma anche dei programmi, siano tutte esternalizzabili.
Un mainstream populista, dominante anche in vasti settori della sinistra, tende ad enfatizzare gli appelli al popolo, la partecipazione intesa come estemporanea manifestazione di volontà, l'assunzione delle decisioni in via diretta e senza mediazione da parte del corpo elettorale. Si finisce per sottovalutare così la parte più nascosta, ma più preziosa della democrazia costituzionale contemporanea, che non è solo decisione, ma anche - soprattutto - capacità di rappresentare gli interessi, le ragioni, le divisioni, i conflitti che attraversano le nostre società pluraliste. È in quest'opera essenziale di mediazione che si rinviene l'insostituibile ruolo costituzionale dei partiti politici come strumento dei cittadini per «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (così l'art. 49 cost.). Un compito che non può essere confuso con la richiesta al proprio popolo di un nome per guidare una competizione elettorale.
Questa seconda faccia della democrazia registra oggi evidentemente una crisi profonda. Proprio perciò ci si dovrebbe chiedere se non si stia sbilanciando il delicato rapporto tra componente plebiscitaria e rappresentativa degli Stati costituzionali contemporanei, con tutti quei rischi di degenerazione del sistema che sin dal finire degli anni '50 Ernst Fraenkel aveva lucidamente individuato. Proprio la necessità di conservare un equilibrio tra i due momenti dovrebbe rendere evidente che le decisioni su chi ci governa o chi ci rappresenta (effettuate attraverso il meccanismo delle primarie per la leadership della coalizione o anche solo per l'individuazione delle candidature nelle diverse circoscrizioni elettorali) non possono esaurire la dinamica politica, non possono sostituire il ruolo di mediazione delle forze politiche organizzate. Il timore di squilibrare il rapporto tra decisione e rappresentanza dovrebbe in realtà dirci qualcosa di più: la debolezza dei partiti che non sono più in grado di mediare per giungere a definire programmi politici chiari e coerenti, a organizzare alleanze di governo, a selezionare un ceto dirigente, può trovare solo un momentaneo supporto nel sistema delle consultazioni dirette (magari svolte esclusivamente via internet, senza troppi fastidi). Se però la "stampella" della legittimazione diretta da parte del popolo della sinistra si dovesse tradurre in un sistema di designazione di un capo, cui tutto è delegato e che assorbe per intero la dialettica delle organizzazioni politiche originarie, ci troveremmo di colpo al di fuori di ogni logica rappresentativa. Affidarsi esclusivamente ai meccanismi di consultazione diretta ci porterebbe - ancora una volta, magari senza accorgersene - entro le logiche perverse della democrazia identitaria. È per questo che chi oggi apprezza a sinistra questo sistema non può eludere il problema della debolezza dei partiti e della perdita della loro capacità rappresentativa.
È inutile negarlo, nel sistema delle primarie si nasconde un evidente paradosso: solo partiti forti possono permettersi di chiedere al loro popolo di esprimersi sulle scelte da assumere, ma partiti in grado di rappresentare i cittadini, in realtà, non hanno bisogno di tali verifiche per elaborare la propria strategia politica.
Il Manifesto - 18.12.12