di Roberto Ciccarelli
Sale il rischio povertà in Italia, sfiora il 30%. Peggiora il mercato Rapporto Istat Rapporto Istat Sale il rischio povertà in Italia, sfiora il 30%. Peggiora il mercato del lavoro, con i dipendenti che calano e sempre meno contratti stabili. Si ferma l'ascensore sociale MAGLIA NERA IN EUROPA È guerra generazionale, rischia di scoppiare la bomba sociale Nel 2011 calano i lavoratori dipendenti e i contratti a tempo indeterminato sotto i 30 anni (-8%)
Povertà sociale, economica e formativa. Sono alcune delle possibili declinazioni della privazione di esperienza, di benessere, e di futuro che sta vivendo l'Italia giunta ormai al quarto anno di crisi. Nell'annuario statistico dell'Istat emerge il ritratto (fotografato tra il 2010 e il 2011) del paese più vecchio al mondo, dove la mobilità sociale è un'utopia, la disoccupazione colpisce 1 milione di under 35, e il declino del lavoro dipendente si è fatto irreversibile, senza che nessuno abbia preso in seria considerazione la necessità di tutelare il lavoro intermittente, precario o autonomo.
Nel Mezzogiorno la povertà supera la media nazionale del 15%. L'11,5% delle famiglie non riesce a riscaldare l'abitazione, mentre il 16% non arriva a fine mese.
L'urgenza con la quale la crisi era stata annunciata due anni fa, nonostante i grotteschi tentativi di nasconderla del governo Berlusconi, sembra avere lasciato spazio alla rassegnata constatazione di uno scacco ancestrale. Se nel 2010 il Belpaese si è svegliato all'improvviso come Gregor Samsa, protagonista delle Metamorfosi di Kafka, e si è scoperto irriconoscibile, oggi è tetanizzato dal disperato realismo di Monti che sollecita i partiti in campagna elettorale ad astenersi dal comunicare anche una speranza.
La bolla formativa
La chiave di questa catastrofe percettiva, prima ancora che economica, è offerta dai dati sulla disoccupazione giovanile e dal calo delle iscrizioni alle superiori e all'università. Per il terzo anno consecutivo scendono gli iscritti alle scuole secondarie di secondo grado (-24.145), mentre gli iscritti all'università (anno accademico 2010/11) sono circa 288 mila, circa 6.400 in meno rispetto all'anno precedente (-2,2%).
Questa tendenza è iniziata nel 2004 e oggi è diventata la norma nei corsi di laurea del vecchio ordinamento (-8,6%) e quelli di durata triennale (-1,9%). La scelta dell'università resta alta nelle regioni del centro-sud (Molise, Abruzzo e Basilicata in testa), segno che i giovani attribuiscono agli studi ancora un valore di emancipazione.
Le donne sono più propense a continuare gli studi dopo il diploma (sono il 67% degli iscritti) e il 37,8% consegue la laurea triennale. Tra chi ha preso la specialistica le laureate sono il 22,6%. Non è un caso se poi, come si è visto nel «concorsone» della scuola, sono le donne under 35 a partecipare in massa alle selezioni. A Sud una su sei è disoccupata.
È difficile spiegare questo decremento con la drammatica crisi occupazionale in corso, visto che il calo è iniziato nel 2004, non nel 2010. Gli studenti della Rete della conoscenza hanno una tesi diversa. Le iscrizioni all'università calano perché sono stati tagliati 8,5 miliardi alla scuola e 1,4 all'università, i servizi sono peggiorati. Le tasse sono aumentate di 280 milioni, e il diritto allo studio è stato tagliato al punto di perdere 6 mila borse di studio nel Lazio e 7 mila in Piemonte.
Alla base dell'esplosione della bolla formativa non c'è dunque la crisi occupazionale, ma il definanziamento dell'istruzione pubblica. Una tesi che esclude di puntare tutte le carte sulla formazione tecnico-professionale, come sostiene il governo Monti supportato anche dallo spot commissionato ieri a Fiorello da Elsa Fornero. Bisogna rifinanziare - su nuove basi - l'intero sistema. A dimostrazione che il mismatch, il divario tra gli studi e il percorso professionale, non si cura con l'apprendistato Basta citare i dati: nel primo semestre del 2012 i nuovi avviamenti sono stati poco meno del 3% del totale.
Precari, mai tutelati
Eppure i diplomati sembrano trovare più occasioni di lavoro dei laureati. Per l'Istat, questa situazione dipende dal recente ingresso sul mercato del lavoro da parte dei fuoricorso che sono oltre il 60% degli iscritti all'università. In realtà la situazione è molto più complessa. Dopo i 29 anni chi è in possesso di una laurea recupera terreno sui diplomati. Nel 2011 i laureati confermano il vantaggio relativo con un tasso di disoccupazione più basso (5,4%, in calo dal 2010) rispetto a chi ha una licenza media o superiore. L'occupazione resta stabile nel corpo centrale della popolazione, quella tra i 35 e i 54 anni, e cresce fra gli over 55. Questo è possibile perché la riforma Fornero ha imposto di restare al lavoro in media 5 anni in più, diminuendo il numero dei pensionati dello 0,4%. Queste sono le basi per una pericolosa guerra tra generazioni. Una bomba sociale che si aggiunge al blocco del turn-over.
Si spiega anche così il calo di 165 mila unità tra i lavoratori dipendenti nel 2011, e del numero dei contratti a tempo indeterminato sotto i 30 anni (-8%). Meno di un contratto su cinque è a tempo indeterminato, mentre il 68% delle nuove assunzioni è a termine. Per nessuna è previsto un reddito di base.
L'Aspi (assicurazione sociale per l'impiego), o la «mini aspi», in vigore dal 2013, possono essere concesse solo a chi ha versato almeno un anno di contribuzione nei due anni che precedono l'inizio del periodo di disoccupazione. Per chi conosce il mondo del precariato, e l'altissima mortalità dei contratti a termine, è chiaro che questa condizione renderà inaccessibile il ricorso alle tutele minime.
La crisi fa Novanta
Se il valore reale del titolo di studio non incide sull'occupazione dei giovani, e non costituisce un antidoto contro il blocco dell'ascensore sociale. Se la giungla dei contratti precari (46) non è stata sfoltita da quell'infondato miracolo di «normalità» rappresentato dal governo dei tecnici, diventa più comprensibile la constatazione dell'Istat. Nel 2009, il 62,6% degli occupati si trovava in una classe sociale diversa da quella dei padri. Una situazione molto simile al 1998. Questa è la realtà che conferma la tesi dell'esplosione della bolla formativa. La crisi non è iniziata con l'ultimo governo Berlusconi, bensì negli anni Novanta. Da allora, i rapporti di classe non sono cambiati. In Italia sono le classi medie ad avere tenuto le posizioni. Una conferma giunge dai dati Ocse del 2010: fa strada chi ha, tra i genitori, almeno un laureato. E tuttavia, l'Italia si conferma uno dei paesi a più basso tasso di alfabetizzazione superiore: circa il 10% rispetto al 40% dell'Inghilterra.
Povertà eterna
Gli italiani sono sempre più longevi, aumenta l'assistenza domiciliare, ma non la media delle pensioni. 7,9 milioni di pensionati vive con meno di mille euro al mese. Il 75% percepisce solo pensioni di invalidità o di vecchiaia. Un futuro ben peggiore si prepara per tutti i nati dopo il 1970. Al termine della loro «carriera lavorativa», dal 2040 in poi, forse non percepiranno nemmeno l'attuale pensione sociale.
Crescono le unioni civili
Nel 2011 le unioni civili hanno soppiantato quelle religiose: il 51,7% contro il 48,3%. Sono stati celebrati 208.702 matrimoni, quasi novemila in meno dell'anno precedente. Le coppie che hanno deciso di sposarsi in comune sono passate da 79 mila del 2009 a 83 mila nel 2011. Calano i divorzi, ma aumentano le separazioni. Tra le over-35 crescono gli aborti spontanei, segno della difficoltà di portare a termine la gravidanza in età avanzata. Le interruzioni di gravidanza crescono anche tra le donne immigrate (33,4%). Rispetto all'Unione Europea, l'Italia si colloca al decimo posto nella classifica dei 27 paesi con minore numero di figli per donna. E si diventa madri sempre più tardi: dopo i 31 anni.