di Felice Roberto Pizzuti
La “discesa in campo” di Monti dovrebbe almeno servire ad eliminare un equivoco che sta condizionato significativamente la vita politica italiana cioè che il suo governo sia tecnico, le cui decisioni sono “dovute”, prive di riferimento ideologico, estranee alla politica ed esenti dalla sfiducia che essa suscita nell’opinione pubblica.
Quell’equivoco ha favorito, anche in ambiti progressisti, il fenomeno dell’assolutizzazione dell’agenda Monti la quale andrebbe inevitabilmente applicata anche dopo le elezioni, a prescindere dal loro esito, dal governo che si formerà e dai programmi che troveranno il consenso democratico degli elettori.
La decisione di Monti di schierarsi politicamente e di allearsi anche con quanti nella vita politica italiana operano da anni non dovrebbe sorprendere e tanto meno indurre a scomodare la categoria della morale; deve invece servire a rendere meno ipocrita il dibattito politico ed elettorale, liberandolo dalle deleterie ipoteche tecnocratiche sulla democrazia.
Tuttavia, rimossa l’aureola super partes e la pretesa indiscutibilità dell’agenda Monti, le forze progressiste devono comunque fare i conti con i suoi contenuti, entrando nel merito anche tecnico, senza remore reverenziali, ma con valutazioni e proposte alternative tecnicamente definite e concretamente realizzabili.
Una critica generale, politica e tecnica, all’agenda Monti è che essa esprime la stessa visione economica, sociale e politica che ha contribuito a quella che va delineandosi come la più grave crisi del capitalismo in tempi di pace. Il presidente Monti non ha subito, ma ha convintamente condiviso le controproducenti politiche rigoriste che finora hanno dominato le scelte dell’Unione Europea e che rischiano di soffocarne le prospettive. Il progressivo aggravarsi della crisi globale di cui non si vede via d’uscita è particolarmente accentuato in Europa non perché abbiamo problemi strutturali superiori, ma per la particolare ottusità delle attuali politiche comunitarie.
Ma essere strutturalmente in dissenso con le politiche comunitarie correnti e con quelle di Monti non deve assolutamente confondere le posizioni della sinistra con quelle contrarie al processo d’unificazione europea. Per uscire positivamente dalla crisi occorre rimuovere le sue cause annidate nel modello neoliberista dominante da tre decenni. E’ necessario che la marcata sperequazione distributiva sia rimossa, non solo per esigenze sociali, ma anche per consentire alla domanda di poter equilibrare l’offerta in corrispondenza a livelli occupazionali superiori a quelli attuali che, invece, continuano a diminuire. Oltre alla quantità della crescita va migliorata la sua qualità sociale ed ambientale che è andata così progressivamente decadendo da costituire un aspetto centrale e moltiplicativo della crisi. A tal fine è tuttavia necessario riequilibrare le sfere d’azione del mercato e delle istituzioni le cui evoluzioni negli ultimi decenni sono state asimmetriche a causa della globalizzazione dei mercati e dell’indebolimento anche a livello nazionale delle istituzioni. Per le popolazioni europee, dotarsi di istituzioni più unitarie e democraticamente rappresentative è necessario non solo per poter dirimere in questi ambiti i contrasti che nei secoli scorsi sono state risolti con le guerre, ma anche per praticare una più efficace interazione tra le logiche individuali e quelle collettive che è indispensabile per riavviare la crescita su basi socialmente ed ecologicamente compatibili e per metterla più a riparo dalla speculazione internazionale. La dimensione nazionale riduce drasticamente la possibilità e comunque l’efficacia di politiche innovative dei settori produttivi, di politiche fiscali redistributive e di politiche sociali e del lavoro capaci di favorire una soluzione efficiente e progressista della crisi.
Peraltro, non è sicuro che l’integrazione europea porti nella direzione auspicata; il processo unitario è stato finora dominato da tendenze controproducenti, coerenti alla visione liberista dell’agenda Monti; ma ciò non toglie che l’Unione sia l’ambito più favorevole, e per certi aspetti privo di alternative, per praticare le politiche di progresso. La sinistra non deve nemmeno far dubitare che sarebbe disposta a lasciare ad altri, ad esempio a Monti, la responsabilità di costruire e gestire l’Unione europea. Sarebbe un suicidio politico.
I margini per scelte economico-sociali autonome a livello di paesi medio-piccoli come sono quelli europei vanno riducendosi, ma ancora esistono. In Italia l’agenda Monti ha già realizzato scelte inique ed economicamente dannose, e altre ne prevede. Le recenti dichiarazioni di Monti sull’opportunità di rivedere le modalità di finanziamento della sanità, unitamente a quanto già realizzato in campo pensionistico, confermano le direttrici della politica economica e sociale presenti nella sua agenda: sostituire in campo sociale l’iniziativa privata a quella pubblica nonostante la seconda sia indubitabilmente meno costosa e più efficace; il conseguente ulteriore peggioramento della distribuzione del reddito non è visto come un problema, né dal punto di vista equitativo né per gli effetti deleteri sulla domanda e sulla crescita. Aver deciso di realizzare 20 miliardi di risparmi nel settore pensionistico pubblico (al netto di quanto costerà “salvaguardare” gli esodati che non erano stati previsti !) che già ogni anno contribuisce positivamente al bilancio pubblico per circa 30 miliardi e prevedere l’ulteriore crescita della previdenza privata che è incentivata fiscalmente, assegnandogli un ruolo sostitutivo, è una scelta redistributiva con una chiara valenza politica che renderà complessivamente più costosa e insicura la copertura pensionistica. Portare l’età di pensionamento oltre i livelli massimi europei (oltre i 70 anni) sta già pregiudicando l’occupazione giovanile a discapito degli equilibri sociali, della produttività e della capacità innovativa del nostro sistema produttivo. Sostituire parti crescenti delle prestazioni sanitarie pubblica con quelle private ci spingerà verso il sistema americano dove si spende il doppio in rapporto al Pil, ma si offre una copertura complessiva minore e socialmente discriminante. Tagliare i finanziamenti all’istruzione e all’università conferma la miope visione del passato governo secondo cui “con la cultura non si mangia” e la prospettiva che il nostro sistema produttivo non avrà bisogno e comunque non disporrà del numero di laureati (già nettamente inferiore a quello medio dell’Unione) necessari ad innovarlo.
L’agenda Monti, specialmente se sostenuta da liste elettorali almeno in parte ripulite dai politici più compromessi, continuerà comunque a beneficiare della sua aureola di professionalità lontana dagli opportunismi della politica. Le forze della sinistra e più in generale quelle progressiste non possono ignorare le motivazioni anche reali di questi convincimenti presenti nell’opinione pubblica.
E' in primo luogo necessario che le forze di sinistra e progressiste propongano con chiarezza programmi coerenti alla loro ragion d’essere, senza cadere in crisi identitarie e atteggiamenti d’inferiorità culturale nei confronti dell’approccio montiano che, altrimenti, risulterebbe accreditato come il progetto originale che non avrebbe senso sostituire con una copia improbabile. Ma la credibilità anche elettorale dei programmi progressisti e poi la capacità di realizzarli richiede competenze anche tecniche e la rottura con la cattiva politica del passato. Specialmente nell'attuale situazione, il successo delle idee e dei programmi dipende molto dalla credibilità delle persone che li concepiscono e li applicano.