di Marco Berlinguer :: intervista a James K. Galbraith, economista
È reduce da un tour europeo, James Galbraith, e non si può dire ne abbia tratto buoni auspici: «Gli europei dovrebbero iniziare a pensare a quale potrebbe essere la fine del gioco, perché io, in queste condizioni, vedo due scenari possibili: una separazione negoziata e consensuale o una che passa attraverso una spirale incontrollata e anche violenta di secessioni». Figlio d'arte - figlio dell'influente e famoso John Kenneth Galbraith - James è un esponente di punta del gruppo di economisti dissidenti che stanno guadagnando visibilità e ascolto nell'opinione pubblica statunitense, a fonte
del discredito crescente degli economisti mainstream. «Ormai, nessuno li prende sul serio», dice Galbraith: «Non hanno visto la crisi, hanno predetto disastri per i deficit che non sono avvenuti, promettono possibilità che mai si realizzano. A fronte di ciò, non riesaminano mai quanto detto, ma cambiano argomento».
Insomma, lei non vede progressi in Europa?
Io non vedo nessun progresso. Restare prigionieri dei detentori internazionali di titoli di debito con la strategia di restaurare la fiducia nei mercati privati non funziona. È conclamato. Le politiche di austerità stanno generando una spirale recessiva. Il problema non è il debito, ma è la mancanza di crescita entrate fiscali, e un aumento dei deficit. Così, ogni giro è peggio. Più austerità, etc. Comincia a vedersi anche violenza, come in Grecia. E si illudono coloro che sperano di isolare la crisi in un paese. Perché ci sarà contagio. Siamo ancora lontani dagli scenari peggiori nelle zone forti, ma la situazione è grave in alcuni paesi, e la crisi può accelerare con una spirale di secessioni, anche interne agli stati, come in Belgio o Spagna. In queste condizioni bisognerebbe cominciare a guardare a due precedenti di separazione di paesi a medio reddito: la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. Una è esplosa sotto l'effetto della violenza, l'altra si è separata in modo negoziato e consensuale. Io mi auguro questa seconda ipotesi.
Quindi lei vede inevitabile la fine dell'euro?
Sono molto prudente a dirlo. Ma l'euro non può sopravvivere a queste politiche.
Come spiega una tale rigidità, ai limiti dell'irrazionale, nelle classi dirigenti europee?
In alcuni paesi, Germania, Francia, in una certa misura Italia, le banche esercitano una potente influenza sulla politica, che si orienta su politiche che servono a stabilizzarle, anche a costo di deteriorare le condizioni dei debitori. Quando la Bce acquista bonds greci, lo fa per le banche, non per i greci. In secondo luogo, in paesi come la Germania c'è risentimento nella popolazione, che non si è arricchita nelle bolle immobiliari, come in altri paesi; e nel gioco politico, cavalcano questi sentimenti. Non hanno spazio per fare concessioni. Se non lo fa la Merkel, lo farebbero altri. Finché è questo il gioco politico, se bisogna padroneggiare la politica tedesca, non è irrazionale. Il problema è che i greci e gli italiani non votano in Germania.
E negli Usa come vanno le cose?
Le elezioni hanno consolidato l'egemonia del partito democratico e aggravato il declino dei repubblicani. A guardar bene, dopo il 1988, hanno vinto una sola elezione presidenziale, perché quella del 2000 fu vinta con brogli. La deriva estremistica repubblicana li rende egemoni in stati come il Kentucky, ma poco significanti nel resto degli Usa.
Però l'economia non si riprende?
Fed, Fdic (l'agenzia federale che garantisce i depositi bancari, ndr), deficit pubblici hanno stabilizzato il sistema, hanno creato un pavimento, ma non c'è stata e non ci sarà piena ripresa.
Perché?
Le famiglie sono indebitate. Stanno pagando, quando possono; ma il valore delle case, i collaterali dei loro debiti, è caduto e non hanno più accesso al credito. Le grandi banche sono state stabilizzate, ma non hanno né la capacità né la volontà di fare prestiti: o fanno speculazioni di varia natura o acquistano titoli di stato. E queste speculazioni, specie su energia, alimenti, materie prime, si mangiano i pochi margini di crescita.
Questo spiega perché nonostante le politiche monetarie espansive, non ci sia crescita?
Io contesto che queste siano politiche monetarie espansive. La Fed ha smesso di occuparsi dell'inflazione, per occuparsi di stabilizzare bassi tassi d'interesse e ha già annunciato che terrà questa politica fino al 2016. Ma queste politiche di quantitative easing (creazione monetaria, ndr) non vanno a favore delle famiglie che stanno cercando di ripagare i mutui e che sono a rischio di un dilagare di insolvenze. Sono a favore delle banche, che però usano questa liquidità per fare speculazioni o acquistare bonds pubblici. Lo stesso discorso vale per quello che fa la Bce rispetto agli stati più deboli in Europa.
C'è un pericolo di inflazione?
L'unico pericolo che vedo, viene dalla speculazione. L'energia oggi costa 2 volte quello che costava 15 anni fa. I prezzi sono instabili, come quegli degli alimenti e delle materie prime. E lo sono, non per eccesso di domanda, ma per speculazioni finanziarie. Quindi se c'è un pericolo di inflazione, non ha nulla a che vedere con la concezione monetarista.
C'è un fallimento della nuova regolamentazione del sistema finanziario, il Dood-Frank?
In teoria ha dato più poteri ai regolatori, ma non abbiamo evidenza di cambi. D'altra parte i poteri per reprimere e punire le massive frodi di Wall Street già esistevano. Non è questione di nuove regolamentazioni. È questione di mancanza di volontà di agire. È il più grande fallimento di Obama: non essere intervenuto sulla direzione e sulla riorganizzazione del sistema bancario. I recenti racconti della ex-presidente della Fdic, Sheila Bair, su come Geitner abbia protetto il management della Citigroup, sono devastanti.
Perché è successo?
È una caratteristica da lungo tempo. Da un lato si confondono le banche con l'interesse generale. C'è questa aspettativa che le grandi banche aiutino, siano tutt'uno con il bene dell'economia. Dall'altro, c'è il famoso fenomeno della porta girevole. Personaggi chiave della leadership democratica sono leader del settore bancario. Basti pensare a Rubin: prima co-presidente di Goldman Sachs, poi segretario al Tesoro con Clinton, poi direttore di Citgroup.
C'è il rischio di una nuova crisi bancaria?
Negli Usa le banche sono state liberate dagli asset tossici. Non immagino possa ripetersi nulla di simile al 2008. Detto questo, vedo due rischi di contagio dall'Europa, per effetto dell'aggravamento della crisi europea e della crisi bancaria europea: perché la crisi europea è bancaria.
E cosa bisognerebbe fare in Europa con le banche?
Invece di fare di tutto per salvarle, bisognerebbe riconoscere le perdite, farsene carico, cambiare la direzione e la gestione, rimetterle in condizioni di operare diversamente.
Prenderle su, vuol dire nazionalizzarle?
Non mi piace la parola, perché è un termine troppo politicizzato. Ma le banche sono entità di interesse generale, che dipendono da garanzie e regole che danno gli stati e le banche centrali.
Quando sono in crisi è dovere degli stati intervenire. Negli Usa è routine che lo stato ne prenda il controllo, capita continuamente, specie di questi tempi per banche minori. Insomma, lei cosa pensa si dovrebbe fare?
Servono nuovi canali. È già successo in passato: canali diversi dalle grandi banche commerciali. Nuove entità finanziatrici e generatrici di credito. Un po' come furono gli enti di ricostruzione in Europa. Oggi dovremmo usarle per affrontare grandi problemi globali, come il cambio climatico.
Pensa a un New Deal coordinato globale?
Il New Deal usò una molteplicità di strumenti, tra cui anche entità di questo tipo. Però io non sono un entusiasta di nuove istituzioni globali: funzionano male e sono screditate. Meglio agire a livello dei paesi più grandi o di regioni.
E le banche centrali dovrebbero finanziare queste nuove entità?
Non è necessario ed io eviterei. Le banche centrali sono un sistema creato per servire un sistema privato, come prestatore di ultima istanza. Sono guidate da gente screditata e reazionaria. È irrilevante che siano loro. È sufficiente che queste entità siano appoggiate dagli stati. Non sono necessarie le banche centrali.
Ma non c'è un limite all'espansione dei debiti pubblici?
Il problema non è l'entità dei deficit ma l'andamento del prodotto. La criticità dipende da quello. Gli Usa uscirono dalla guerra con un debito pubblico di oltre il 120%. Poi diminuì, non grazie all'austerità, ma alla crescita. Io parto dal concetto che un paese che controlla la sua moneta non ha problemi di insolvenza. Giappone, Usa, Gran Bretagna, Svizzera, per esempio. Può ad esempio imporre alle banche di tenere i suoi titoli di debito come riserva obbligatoria. Questo è all'opposto il problema di paesi come Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda, in un certa misura Italia, che non controllano la loro moneta e devono vendere i loro titoli ai mercati finanziari internazionali.
Però il caso del Giappone non è molto incoraggiante?
Vero. Non è riuscito a riattivare la crescita, dalla fine degli anni '80. Oggi il debito è oltre il 200%. Però è anche una prova che in un paese sovrano il debito in sé non è un problema. Continuano a indebitarsi a tassi molto bassi.
Quindi non vede problemi nel deficit, se c'è crescita?
Sì. Anche se io sarei molto cauto nel promettere un piena ripresa. Abbiamo molti problemi. E ne dico tre sui quali bisogna vigilare. Abbiamo un sistema di istituzioni pubbliche e finanziarie corrotto e inefficiente.
C'è un rischio nel costo delle materie prime, per motivi speculativi. Essendo importazioni, si mangiano margini ed effetti della crescita. Bisogna stabilizzare e rendere sostenibili questi prezzi. Anche in vista del terzo tema. Occorre affrontare temi globali, come il cambio climatico. Perché se non si affronta questo, altro che costi e crescita.
Lei si considera di sinistra?
Io mi considero un realista. Un economista per le mie competenze, un progressista per le mie idee di fondo. Ma non mi sono mai conformato a nessuna ideologia.
Cosa vuol dire per lei oggi essere progressista?
La volontà e la finalità del pubblico sono state dominate dagli interessi finanziari: questa è la mia visione. Ci sono altri problemi: la pubblica amministrazione è corrotta e inefficiente? Vero. Ma questa è per me la questione centrale. Non si può lasciare che questi interessi dominino lo spazio pubblico.
Cambierà questa situazione nel secondo mandato di Obama?
È possibile. Nonostante le sue politiche filo-Wall Street, gli hanno girato le spalle, hanno tentato di non farlo rieleggere. Comunque è una scelta politica. Come tale, sempre possibile.
È in arrivo una stangata di quasi 1.500 euro a famiglia. A lanciare l’allarme Adusbef e Federconsumatori che mettono in guardia sugli aumenti di prezzi e tariffe (canone Rai, servizi postali e bancari, tariffe aeroportuali, tassa rifiuti, bollette, rc auto etc) che determineranno un salasso di 1,490 euro a famiglia. Secondo i consumatori si tratta di «aumenti insostenibili che determineranno nuove e pesantissime ricadute sulle condizioni di vita delle famiglie (già duramente provate) e sull’intera economia, che dovrà continuare a fare i conti con una profonda e prolungata crisi dei consumi».
Le famiglie dovranno fare i conti con l’aumento del canone Rai (+1,5 euro che porterà il tributo a 113,50 euro l’anno), delle tariffe aeroportuali (+8,5 euro a biglietto), dei pedaggi (+2%), delle tariffe postali (da un minimo di +15% a + 40% per la posta prioritaria, del 58,3% per il bancoposta il cui canone annuo, salirà da 30,99 a 48 euro e il costo degli assegni, prima gratis portati a 3 euro).
Per non parlare della Tares, che, ricordano Adusbef e Federconsumatori, aumenterà dal 1 aprile del 25%; dei servizi bancari e dell ’assicurazione auto(+5%). «Le parole d’ordine per risollevare le sorti delle famiglie e dell’intera economia - osservano Elio Lannutti e Rosario Trefiletti, presidenti di Adusbef e Federconsumatori - sono: ripresa della domanda di mercato, liberalizzazioni, nonchè investimenti per l’innovazione lo sviluppo tecnologico per il lavoro che rimane il problema fondamentale del Paese. In assenza di un serio progetto che vada in questa direzione, la fuoriuscita dalla crisi si farà sempre più lontana e improbabile».
Le cattive notizie non arrivano mai sole. «L’anno che sta per chiudersi segnerà un calo record del potere d’acquisto delle famiglie». Lo afferma il Codacons, che ha elaborato i dati Istat relativi alla capacità di spesa dei nuclei familiari italiani. Secondo l’associazione dei consumatori, «la congiuntura economica estremamente negativa, l’inserimento di nuove tasse, l’inasprimento generale della pressione fiscale, i rincari registrati nelle tariffe e nei prezzi al dettaglio mentre salari e stipendi sono rimasti al palo, hanno determinato nel 2012 una fortissima perdita del potere d’acquisto dei cittadini, che per una famiglie media è diminuito del 4%. Tale perdita di capacità di spesa equivale a una tassa invisibile che ha pesato per 1.398 euro su una famiglia di 3 persone, e addirittura 1.540 euro su un nucleo composto da 4 persone».
Intanto le città italiane sono piene di turisti benché care. Venezia supera tutte con 130 euro in media per una camera doppia a notte (in calo però del -7,1% rispetto a novembre).
Seguono Milano (120,00 euro, -8,3%), Roma (109,00, -4,4%), Firenze (105 e una flessione più contenuta, -2,8%) e Verona (100,00, -10%). A Bologna invece la diminuzione maggiore, -21% (91,00). E’ quanto rileva il Ciset, Centro internazionale di studi sull’economia turistica della Università Cà Foscari di Venezia, analizzando i prezzi del Trivago Hotel Prix Index per il mese di dicembre.
da Pubblico giornale