121012rodotaIntervista a Stefano Rodotà di Luca Telese
«Questi due referendum non hanno un valore simbolico. Sono l’unico modo per riscrivere l’agenda della politica costringendola ad occuparsi dei diritti. Sono un modo per impedire la cosa più grave che sta accadendo: la privatizzazione del diritto del lavoro». Incontro Stefano Rodotà nelle bellissime stanzette della Fondazione Lelio Basso. Rodotà è una specie di Onlus democratica. Saluta gli studenti che frequentano la biblioteca dell’istituto, organizza convegni e semi- nari, entra ed esce dalle scuole («Ho incontrato 10mila studenti», licenzia il suo ultimo libro (Il diritto di avere diritti, splendida frase di Calamandrei, esce a novembre per Laterza) cerca fondi per salvare questo tempio della cultura democratica: «Stanno tagliando tutto, tutto! Ci servono 40mila euro per le riviste e ancora non so dove trovarli».
Professor Rodotà, ancora una volta lei è padre e animatore di una battaglia referendaria.

Lo sono, e con convinzione. I quesiti riguardano due articoli molto diversi, ma altrettanto cruciali.
Il primo riguarda la soppressione della riforma Fornero dell’articolo 18.
Io non mi sono dimenticato che Squinzi, durante la sua campagna per la presidenza della Confindustria, diceva che non era così importante...
Dicono che lo chiedesse l’Europa!
E questo è falso. Non era nella lettera Trichet- Draghi, questa è una curiosa leggenda metropolitana.
E da dove salta fuori, quella riforma, allora?
È una operazione fortemente ideologizzata. È un vento che spira in tutta Europa e che dice: «Noi non possiamo guardare in faccia nessuno, noi dobbiamo comprimere i diritti perché la crisi lo impone».
Le diranno che lei è un professore che si cura dei principii astratti senza considerare la situazione.
E invece è la riforma, che è una operazione fortemente politica e ideologica. Capisco Bersani quando dice: «Abbiamo limitato il danno». Ma qui il danno non è solo simbolico, è un danno materiale, morale, politico.
E qui passiamo al secondo quesito, quello sull’articolo 8.
È ancora più grave, o ancora più ideologico, se volete. Qui il diritto del lavoro viene riscritto, privatizzato. Si torna alla premodernità.
Cioè al Novecento?
Forse persino alla rivoluzione industriale. Quell’articolo dice che non esiste più un contratto nazionale, che tutto può essere contrattato a livello aziendale.
Le sembra un’eresia?
È la riproposizione della legge più antica della storia umana, quella che precede la civiltà del diritto: il più forte vince.
Le potrebbero dire: ma a livello locale possono essere molto forti anche le ragioni dei lavoratori.
(sorride) Nel tempo della crisi il più forte è il datore di lavoro. Viene cancellato di fatto il diritto del lavoro come lo abbiamo conosciuto: anzi, il lavoro diventa un fatto privatistico. Il lavoro diventa merce.
Eppure questo articolo ancora non viene applicato.
Perché se ne comprende la gravità. L’articolo 35 della nostra meravigliosa Costituzione
sancisce un principio che ci siamo dimenticati. E qui cito: «La retribuzione del lavoratore deve garantire a lui, e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa». Capisce la differenza abissale?
Sa cosa le rispondono? Non ci sono i soldi.
E invece è un problema di cultura e mentalità: la cultura della Costituzione, e quella dello Statuto dei lavoratori, che la traduceva, dicevano che non si possono negoziare le condizioni minime contrattuali.
Da dove nasce tutto questo?
In questi anni ci hanno raccontato che abbiamo celebrato il funerale delle ideologie. Io invece vedo che è rimasta in campo un’unica ideologia, l’ideologia mercantile.
Accade in tutto il mondo, cosa possiamo fare in Italia?
Ma in tutto il mondo ci sono opposizioni a questo vento. Gli operai cinesi che scioperano non conoscono la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, forse, ma si battono per inverarla. Le donne musulmane che si fanno frustare rivendicano il proprio diritto a scegliere da sole. I movimenti della primavera araba, qualsiasi sia il loro bilancio finale, abbattono il totalitarismo rivendicando i diritti. I diritti non sono una frontiera arretrata, ma il punto di partenza di tutte le battaglie di liberazione moderne.
Lei crede che ci sia una strategia, in tutti questi provvedimenti, nelle scelte apparentemente asettiche dei tecnici.
La continua soppressione di garanzie costituzionali giustificate con l‘emergenza impone questo adagio: rassegnatevi ad avere meno diritti. Meno sanità, meno scuola, perché non ci sono soldi.
E lei pensa che sia propaganda?
Non è vero. E non è vero che lo chieda l’Europa. Non è solo contro la Costituzione italiana, è contro la Carta fondamentale dell’Unione europea.
Lei nel libro che sta per pubblicare denuncia il rischio di un terremoto epocale.
Oh sì. Io credo che stiamo tornando a una cittadinanza censitaria. Salute e garanzia sono il privilegio di chi ha i denari.
Come nell’Italia liberale pre-giolittiana?
Come nell’Italia in cui votavano solo maschi abbienti, alfabetizzati, e maggiorenni.
A che serve il referendum?
Intanto bisogna dire che se si raccolgono le firme, si voterà nel 2014. Questo vuol dire che segna la campagna elettorale, e impone la sua discussione nella prossima legislatura.
È uno strumento di lobbying democratico, vuol dire?
Esatto. Un deterrente. Un modo per far con- tare la società civile.
Non è un mistero che a lei non sia piaciuta la cosiddetta foto del Palazzaccio, perché? Perché anche quando vennero a a chiedere a me di andare in televisione per i referendum sui beni pubblici, io dissi no. Avevo paura di una personalizzazione. E invece dovevano stare in primo piano i cittadini.
Lei vuole dire che in quella foto scompaiono i cittadini?
Esatto. Io non ho nulla contro Ferrero, Bonelli, Ferrando, Diliberto... Dico che marchiare questa causa come una causa di partito è un grave errore. Se si ha a cuore la causa, ovvio.
E l’assenza del Pd?
Riconosco a Bersani un merito. Essere saltato in corsa sul treno dei referendum per i beni comuni. Dovrebbe farlo anche ora, senza stare ad ascoltare chi dice: «Compromettono l’agenda Monti».
Lei dice che queste riforme son figlie dell’ideologia. Anche il governo tecnico lo è?
Io ho apprezzato l’idea che arrivassero delle facce pulite. Che all’estero non ci chiedessero più: «Come è possibile che vi rappresenti un premier come Berlusconi...».
Però?
Però leggo in questi atti una visione esclusivamente economicistica. La mancanza di una idea di guida. Vede, io non vengo dalla cultura del Pci. Ma nel Pci ho imparato da Enrico Berlinguer una cosa importante: la politica è fatta di simboli e di visioni.
Cioè?
Berlinguer pensava che in ogni cosa si dovesse comunicare un senso profondo, un progetto di riforma alto. Se non c’è questo, se si parla solo di spread e di economia, se si pensa di poter disegnare le traiettorie delle vite con il calcolatore, l’unica risposta è la resa alla crisi. O all’antipolitica. Ovvero, in entrambi i casi, si finisce per affrontare problemi enormi senza riuscire a dare risposte.

Pubblico, 12 settembre 2012

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