diritto_lavoro

 

di Alberto Burgio e Roberto Croce

Il diavolo, come si dice, si nasconde nei dettagli. Tra le pieghe, la manovra economica varata dal governo colpisce una storica garanzia posta a tutela dei lavoratori: la gratuità del processo del lavoro. Anche per questo stupisce che il capo dello Stato, normalmente così attento ai diritti dei lavoratori, l'abbia avallata. Il comma 6 dell'articolo 27 del decreto legge 98 estende ai «processi per controversie di previdenza ed assistenza obbligatorie nonché per quelle individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego» il contributo unificato di iscrizione a ruolo previsto dall'articolo 13 del Dpr n. 115 del 2002.
Tradotto in volgare vuol dire che, da oggi, se un lavoratore (anche precario o in nero) vuol iniziare una causa contro il datore di lavoro o un cittadino intende rivendicare in giudizio una prestazione previdenziale o assistenziale, non potrà muovere un passo senza versare un contributo a partire da 37 euro (ma secondo gli studi della Cgil, il costo medio di ogni causa sarà di 233 euro).


Si dirà che si tratta di importi irrisori. Anche se fosse vero (e non lo è) non è evidentemente questo il punto. Innanzitutto la modifica legislativa in questione - che manomette un principio vigente nel nostro ordinamento da oltre quarant'anni - è avvenuta nel più assoluto silenzio di quasi tutti i commentatori e partiti politici (Pd in testa); il che la dice lunga sull'attenzione che - al di là dei proclami - circonda i temi del lavoro e le garanzie dei lavoratori.
Ma ciò che più conta è il significato per dir così sistemico di questo gesto «riformatore». Che è l'ennesimo colpo inferto dal centrodestra al sistema di tutele e di garanzie del lavoro subordinato costruito nel corso del secolo scorso. Ciò a conferma del fatto che il populismo, con la sua messinscena della cura per i problemi dei meno abbienti, va di pari passo con politiche di classe volte a cancellare, in primo luogo sul piano dei «rapporti di produzione» e della conflittualità, quanto resta della sinistra e dei suoi (potenziali) settori sociali di riferimento. Come dire: il conflitto capitale-lavoro deve stare fuori non solo dalle fabbriche e dal parlamento, ma anche dalle aule di giustizia (dei giudici non ci si può fidare) e, più in generale, dalla società. Il lavoro dipendente, dopo essere stato disgregato e disperso, dev'essere privato di tutele (oltre che di coscienza e di rappresentanza) e finalmente ridotto in assoluta solitudine.
In questo contesto - nel quale non è certo di conforto l'accordo sulla contrattazione con la Confindustria siglato dalle confederazioni - vanno letti i sistematici interventi di destrutturazione del diritto del lavoro e del sistema di relazioni sindacali attuati dal centrodestra (si pensi al cosiddetto «collegato lavoro», arma di distruzione puntata contro i diritti dei lavoratori). Nello specifico, il ricorso alla giurisdizione deve cessare di essere un diritto costituzionalmente garantito sempre e comunque (secondo quanto disposto dall'articolo 24 della Costituzione) e deve diventare un optional ( o un lusso) riservato a quanti se lo possono permettere.
Nessuna illusione: i 37 euro di oggi sono solo la classica prova tecnica generale, un esperimento apripista. Dovesse persistere la (ad oggi inesistente) reazione di partiti e sindacati, di certo ben presto verrebbero introdotti nuovi e più salati balzelli. L'inerzia delle attuali «opposizioni parlamentari» è sconsolante, benché non del tutto sorprendente. Non resta che sperare nella reazione delle forze critiche ancora presenti nel paese (a cominciare dalla Fds e dalla Fiom). Si chieda con forza a chi di dovere che in sede di conversione in legge del decreto questa velenosa «innovazione» venga soppressa e rispedita al mittente.

Il Manifesto 12/07/2011

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