Intervista a Emiliano Brancaccio di Checchino Antonini
«Trovo maldestro, al limite del comico, il tentativo di certi media di valutare il caso del Montepaschi come un effetto di ingerenze politiche nella gestione bancaria. Sergio Rizzo, sul Corsera, ha addirittura candidamente affermato che il problema chiave sarebbe la dipendenza della banca senese dal potere politico. A suo avviso, quindi, per risolvere i problemi di MPS è sufficiente che la politica faccia un passo indietro e lasci la banca alle logiche del mercato. Ma qualsiasi osservatore che non abbia il prosciutto dell’ideologia liberista sugli occhi sa bene che questa è una interpretazione fuorviante e manichea dei fatti.
La verità è un’altra: la crisi di MPS è soltanto il segno precoce e più evidente di una crisi bancaria di carattere sistemico, che ha le sue radici nell’onda speculativa che ci ha portato al tracollo dell’ottobre 2008 e dei cui danni si stanno facendo carico sempre di più i bilanci pubblici e i contribuenti».
L’economista Emiliano Brancaccio non conosce le banche semplicemente alla luce dei suoi studi sul “capitale finanziario” di Rudolf Hilferding, ma parla per conoscenza diretta dei fatti. Nel 2006 era stato chiamato in Banca Toscana per contribuire al risanamento del piccolo istituto di credito territoriale, di proprietà del Monte dei Paschi di Siena. Due anni dopo, nonostante i progressi di gestione, Banca Toscana venne improvvisamente chiusa e incorporata nel Monte. Non fu un caso isolato: l’intero gruppo MPS venne sottoposto a una profonda ristrutturazione. Giuseppe Mussari, allora presidente, la giustificò con la necessità, per la banca senese, di dirottare tutte le risorse interne sul finanziamento della costosa acquisizione di Antonveneta. Una decisione che molti definiscono poco azzeccata, col senno di poi…
«In realtà anche col senno di prima, ma non da parte di tutti. Oggi è di moda puntare il dito su quella operazione, ma è il caso di ricordare che all’epoca dei fatti gran parte dei media nazionali elogiarono l’acquisto di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi. Personalmente, con altri, criticai la scelta dei vertici del Monte di concentrare tutti gli sforzi sull’acquisto di Antonveneta. I nostri rilievi critici, tuttavia, erano decisamente minoritari. E soprattutto erano ben diversi da quelli sui quali oggi svariati commentatori sembrano concentrarsi. Il problema che ponevamo era che l’operazione stava avvenendo a un prezzo che probabilmente si situava sul picco massimo di una enorme bolla speculativa. Una bolla, a nostro avviso, destinata a esplodere. Il Sole 24 Ore, che forse giudicò l’operazione con più equilibrio di altri, riconobbe il problema. Ma anch’esso poi affermò che dopotutto “le turbolenze dei mercati passano, gli sportelli invece restano”. Il guaio è che non si trattava di una mera “turbolenza”. In realtà eravamo alla vigilia della più violenta crisi finanziaria ed economica dal dopoguerra, che di lì a poco avrebbe determinato un crollo verticale dei valori delle banche. La vera responsabilità di Mussari, dunque, è di non aver capito che stava cercando di inserirsi nel grande boom dei valori finanziari quando l’orgia speculativa era già finita. Tutti gli errori successivi non sono altro che una logica conseguenza di quella illusione originaria».
Anche la mancata informazione relativa alle operazioni sui derivati, sulla quale oggi la stampa si concentra, sarebbe da ascrivere a quel vizio speculativo originario?
Ovviamente sì. Se la mancata informazione agli organi interni ed esterni di vigilanza sarà confermata, ci troveremo di fronte a una violazione della legge e degli statuti. Ma è da ingenui considerare questa vicenda in un’ottica semplicemente deontologica o giudiziaria. In questo modo si finisce per interpretare il caso come se fosse un banale problema di “mele marce” in un sistema altrimenti sano. In realtà il caso Montepaschi è solo la punta di un iceberg di problemi che attanaglia larga parte del settore bancario, e che sta lentamente affiorando. Alla fine del 2007 il Monte assumeva di fatto una improvvida posizione da “rialzista” quando il mercato già volgeva al ribasso. Per questo motivo la banca senese è stata tra le prime a registrare pesanti perdite di bilancio, che ha cercato poi di tamponare con operazioni finanziarie sempre più discutibili e gravose, che oggi salgono alla ribalta delle cronache. Ma questa dinamica perversa non è affatto circoscritta al perimetro delle mura di Siena. In misura più o meno accentuata essa investe l’intero assetto del potere bancario. Il tentativo di rimediare al crollo dei valori di bilancio con operazioni di copertura finanziaria che a lungo andare si rivelano gravose e al limite controproducenti, è una prassi diffusa all’interno di un sistema in grave debito d’ossigeno, che ancora per lungo tempo sconterà i fasti delle onde speculative degli anni passati.
Si dice però che le banche italiane siano più solide di quelle estere, perché hanno partecipato in misura solo marginale al baccanale finanziario.
E’ una semplificazione. E’ vero che nei bilanci delle banche italiane ci sono meno titoli cosiddetti “spazzatura”. Ma è anche vero che il nostro sistema bancario, come tutti quelli situati nelle aree periferiche della zona euro, patisce in misura particolarmente accentuata la caduta dei redditi dei debitori e l’aumento conseguente delle sofferenze bancarie e dei fallimenti. Queste difficoltà sul versante dei rimborsi rendono le nostre banche ancora più sensibili al crollo dei valori azionari iniziato nel 2008. Per queste ragioni l’epicentro della prossima crisi bancaria potrebbe situarsi nelle periferie della zona euro, piuttosto che al centro della stessa.
C’è chi afferma che per dare respiro alle banche in difficoltà bisognerebbe rapidamente completare la costruzione della Unione bancaria europea e della connessa Assicurazione europea dei depositi.
Ho qualche dubbio su questa linea, mi sembra che rifletta un europeismo un po’ ingenuo. Se l’assicurazione europea dei depositi sarà istituita in cambio dell’attribuzione all’autorità europea di vigilanza del potere di avviare e gestire un processo di ristrutturazione bancaria su scala continentale, le banche dei paesi periferici potrebbero diventare oggetto di acquisizioni estere a buon mercato. Se così andasse, non sarebbe un esito positivo.
In che modo allora bisognerebbe intervenire? Non solo i giornalisti, ma anche svariati economisti di orientamento liberista, parlano della necessità di sganciare le banche dalle fondazioni, in modo da sottrarle all’influenza della politica e sottoporle in termini più trasparenti al giudizio del mercato.
La causa principale della crisi in cui oggi versa il Monte e che domani colpirà altre banche verte sulle dinamiche speculative del mercato finanziario, che hanno comportato un enorme rialzo dei valori dei capitali fino al 2007 e un successivo tracollo dopo quella data. Queste violente oscillazioni sono connaturate al regime globale di accumulazione finanziaria che abbiamo ereditato dagli anni del cosiddetto “pensiero unico” e che, sebbene in grave affanno, resta tuttora egemone. Sarà scomodo e demodé doverlo ammettere, ma la cosiddetta “influenza” della politica sulle fondazioni non c’entra un bel niente. Piuttosto, bisognerebbe prendere atto che la situazione di bilancio del Monte dei Paschi non potrà essere sanata con dei prestiti al nove percento erogati dal governo. Né si può pensare che questi prestiti favoriranno l’erogazione di credito a favore delle imprese e delle famiglie. L’unica soluzione razionale, a questo punto, dovrebbe esser quella di avviare immediatamente un percorso verso la nazionalizzazione dell’istituto. Le ricerche più recenti evidenziano che le banche di proprietà pubblica possono erogare credito a condizioni più favorevoli e soprattutto in un’ottica di più lungo periodo, servendo così meglio il territorio in cui operano, e senza lasciarsi condizionare da tentazioni di tipo più o meno smaccatamente speculativo.
Liberazione - 23.01.13