Fr. Pi.
Nessuna variazione nella linea di rigore imposta dall'Europa «carolingia» RATING E CRISI Ora tutti, nella Ue, snobbano le agenzie. E la Germania si irrigidisce Finisce il sacro rispetto per le «tre sorelle»: sono proprietà di fondi e banche Usa
L'arbitro non è imparziale. Tutta l'Europa che conta ha improvvisamente cambiato tono nei confronti delle agenzia di rating, invitando tutti a snobbarne i giudizi. Nemmeno «i mercati» ne hanno tenuto conto, facendo salire le borse nel giorno in cui anche l'agenzia Firch preannunciava un taglio del rating al debito pubblico italiano entro gennaio; e Standard&Poor's estendeva il declassamento anche alle Poste o alla Cassa Depositi e Prestiti. Come conseguenza, la timida richiesta italiana di avere una politica di bilancio meno unilaterale e rovinosa è stata respinta bruscamente al mittente: «potete far da soli», ci dicono da Berlino.
Vediamo perché le due cose si tengono. Contro le agenzie è successo qualcosa di impensabile fino a qualche giorno fa, quando non c'era discorso pubblico che non contenesse un omaggio referente e preoccupato al potere di S&P, Moody's e Fitch. Finché bastonavano un singolo paese da «riportare a comportamenti virtuosi», andava benissimo. Se invece attaccano tutta l'Europa, declassando la Francia e altri 8 paesi, allora l'attendibilità è dubbia.
Il commissario alla concorrenza Olli Rehn è stato anche più duro del presidente della Bce, Mario Draghi, dichiarando che quelle agenzie «giocano secondo le regole del capitalismo finanziario americano». Anche perché «sono» assolutamente controllate da quel sistema finanziario.
Lo scenario sembra dunque quello di una «guerra» intercontinentale combattuta a colpi di downgrade. Guerra «asimmetrica», come piace ai potenti, perché quell'arma ce l'hanno solo gli Usa (la cinese Dagong è troppo giovane per «fare tendenza» fuori dall'Asia). Dove prima imperava il massimo rispetto, ora è tutto un fiorire di informazioni intinte nel veleno. La proprietà delle agenzie viene scandagliata con acribia, «scoprendo» (le partecipazioni azionarie sono pubbliche da sempre, in realtà) che la Capital World Investment - uno dei maggiori fondi comuni Usa - possiede il 10,26% di S&P e il 12,6 di Moody's. E quote minori hanno decine di altri fondi e banche statunitensi. Inevitabile dunque constatare il «conflitto di interessi» (quelli che vengono quotati sono in molti casi gli stessi che controllano il «giudice».
Peggio ancora: ogni giudizio orienta i mercati globali, cambiando gli orientamenti di investimento. Molti fondi, per esempio, non possono per statuto tenere in portafoglio titoli senza almeno una «A»; quindi davanti a un declassamento come quello subito dall'Italia debbono per forza vendere i «nostri» titoli di stato. Contribuendo così ad affossarne il prezzo e ad aggravare la crisi, avvicinando un altro downgrade.
Un labirinto di interessi intrecciati in cui cercare un «giudice imparziale» è un'illusione da gonzi.
Anche le procure - italiane, europee, statunitensi - hanno iniziato a muoversi, pur se con anni di ritardo. Non convince in effetti il giudizio dato - negli Usa - sui mutui subprime fino al giorno prima dell'esplosione; in Italia, c'è il problema delle valutazioni su Parmalat, che hanno permesso a Tanzi di rastrellare valanghe di denaro e di creare la voragine in cui in tanti hanno perso i loro risparmi.
Ma a quanto pare, stavolta i «mercati» hanno dato ragione a chi attacca le agenzie. Le borse europee sono andate benino sia lunedì che ieri, mentre in molti si aspettavano un diluvio. Molto ha pesato, però, anche l'intervento della Bce, che ha comprato titoli di stato sul mercato secondario, aiutando la discesa degli spread rispetto ai titoli tedeschi.
C'è però un'altra faccia della medaglia, dietro questa «unità anti-rating». S&P ha infatti criticato la «linea Merkel» con argomenti quasi inoppugnabili: il rigore sui conti pubblici, da solo, non crea nessuna condizione di ripartenza dell'economia; anzi, può soffocarla. La difesa di quella linea, dunque, impone di considerare le «tre sorelle» del rating alla stregua di casseur della finanza europea.
Viene da qui, quasi direttamente, anche la brusca risposta tedesca alle richieste avanzate da Mario Monti nei giorni scorsi («abbiamo fatto la nostra parte, ora l'Europa deve fare di più»). Il capo dei consiglieri economici della cancelliera, Wolfgang Franz, ha spiegato in un'intervista tv che «l'Italia può fare il lavoro da sola». Peggio: ha ripreso a criticare anche l'unica «misura non standard» attuata in questo momento dalla Bce: l'acquisto di titoli di stato «pericolanti». Se non è accanimento questo...
Da Il Manifesto 18 Gennaio 2012