pattaDi Gianpaolo Patta

È ripartita alla grande la campagna per il superamento dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Campagna che ha preso il posto nei tempi più recenti di quella più antica contro la scala mobile. Quando il capitalismo entra in crisi, ieri come oggi, non si trova di meglio che addossarne la responsabilità ai diritti e alle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. Inutile, chiedere di verificare se dopo l'abolizione della scala mobile del 1992, il paese stia in una situazione migliore di allora. Nessuno dice che da quando nel 92-93 vennero bloccate le pensioni, privatizzate le banche, elevata la pressione fiscale, cancellata la scala mobile, e altri provvedimenti dello stesso segno di quelli che vengono presi o invocati oggi l'Italia ha semplicemente smesso di crescere.

Siamo fermi da allora, e questa è la principale ragione per la quale i giovani non trovano soddisfacenti sbocchi di lavoro e di vita. Anche oggi invece di interrogarsi sui guai strutturali della nostra economia si riparte a testa bassa con l'articolo 18 e le pensioni.

Esaminiamo un po' la solidità delle argomentazioni di coloro che danno la colpa all'esistenza dell'articolo 18 sia della bassa crescita che dei guai dei giovani. Parrebbe capire che i lavoratori italiani eccessivamente tutelati dall'articolo 18 lavorerebbero meno di quanto potrebbero, sarebbero meno disponibili a un loro utilizzo flessibile, meno disponibili a straordinari , eccetera. Si dice addirittura che le aziende italiane preferiscono restare piccole, con tutti i guai che questo comporta per l'economia nazionale, proprio per non superare la fatidica soglia dei 15 dipendenti oltre la quale scatta il famigerato articolo 18 che li tutela dai licenziamenti illegittimi. Fin qui le chiacchiere, diamo un'occhiata ai dati dell'economia reale così come pubblicati dall'Istat nella sua pubblicazione periodica sulla struttura e competitività delle imprese italiane. (I dati disponibili si riferiscono al 2009).

Dai dati dell'Istat risulta che è vero che i lavoratori nelle aziende sotto i 10 dipendenti lavorano più dei loro colleghi delle grandi aziende: circa 100 ore in in più all'anno. Risulta anche che i lavoratori dipendenti delle microimprese guadagnano meno: percepiscono una retribuzione annua pro-capite di 18,4 mila euro, il 65,6% di quella percepita in media dai dipendenti delle imprese con 250 addetti e oltre (28,1 mila euro). Fin qui i dati parrebbero dare ragione alle argomentazioni richiamate, ma solo fin qui perché i risultati globali, non solo per i lavoratori che sono meno retribuiti, ma anche per il Paese e per gli stessi imprenditori, sono nettamente peggiori nelle aziende da uno a 10 dipendenti rispetto a quelli conseguiti dalle medie grandi imprese.

Infatti il valore aggiunto (sostanzialmente la somma di profitti e redditi dei lavoratori dipendenti) per addetto, " mostra una netta tendenza a crescere all'aumentare della dimensione aziendale: dai 24,1 mila euro delle microimprese si passa ai 36,4 mila euro di quelle con 10-19 addetti, ai 43,2 mila euro delle imprese con 20-49 addetti, ai 48,4 mila euro delle medie imprese fino ai 59,8 mila euro delle grandi imprese". (Istat) . Insomma le medie e grandi imprese contribuiscono al Pil del paese, a parità di occupati in misura ben più significativa di quanto facciano le microimprese (gloria nazionale). E dire che la volontà di lavorare nelle microimprese sarebbe aiutata non solo dalla facilità di licenziare ma anche dalla presenza dei cosiddetti padroncini che vi prestano la loro opera certo con un'intensità e una partecipazione superiore a quella dei loro dipendenti. I padroncini infatti sono ben il 64,2% dell'occupazione totale delle aziende da 1 a 10 dipendenti. Insomma nelle microimprese si lavora di più e con più partecipazione, più intensità, più flessibilità, (più lavoro nero), eppure i risultati in termini di produzione di ricchezza per i padroncini, per i lavoratori, e per il Paese sono meno positivi che nelle imprese dove ci sarebbe uno strapotere dei lavoratori e dei loro sindacati e dove il padrone neanche lavora perché delega il proprio ruolo a dirigenti. Il risultato insomma è quello che si legge sui dati Istat: "Le microimprese (con meno di 10 addetti), rappresentano il 94,8% (4,1 milioni di imprese-nda) delle imprese attive, il 47,5% degli addetti e –solo! (nda)- il 25,5% del valore aggiunto realizzato. Nelle grandi imprese (con almeno 250 addetti), che ammontano a 3.502 unità, si concentrano il 18,9% degli addetti e il 30,4% del valore aggiunto." Con meno padroni, meno addetti, minore orario annuo di lavoro, le medie grandi imprese superano in tutti i risultati le microimprese (che pure non hanno sindacati, articoli 18, lavorano volentieri in nero). Forse una spiegazione più seria che non l'articolo 18 sta nel differente peso che gli investimenti hanno nella grande e nella micro impresa. Dice l'Istat: "Gli investimenti per addetto nell'industria in senso stretto ammontano a 9,5 mila euro, in particolare sono pari a 6,9 mila euro nelle microimprese e a 16,3 mila euro nelle grandi imprese. Queste ultime realizzano il 42,8% degli investimenti complessivi del settore." E un'altra risposta potrebbe essere quella relativa all'utilizzo di manodopera professionalizzata, con alto livello di istruzione che è maggiormente presente nella media e grande impresa. Certo l'impresa con due o tre dipendenti non utilizza certo l'ingegnere per le sue attività o per la direzione dell'azienda. (L'enorme diffusione delle micro imprese è una delle ragioni delle difficoltà che trovano i laureati, nonostante siano in numero minore ad altri paesi, a trovare occupazione).

L'esistenza dell'articolo18 sarebbe d'intralcio al pieno sviluppo della nostra competitività nell'economia globale. In realtà l'Italia ha un certo peso nell'economia globale non certo grazie alle aziende dove non esiste l'articolo 18 ma dice l'Istat: le imprese manifatturiere che effettuano attività diretta di esportazione di beni presentano una dimensione media pari a34,9 addetti (30,3 addetti nel 2008), nettamente superiore a quella delle imprese non esportatrici (4,2 addetti)."... "le imprese manifatturiere esportatrici testimoniano una più elevata produttività apparente del lavoro (il valore aggiunto per addetto è di 52,2 migliaia di euro) rispetto a quelle orientate esclusivamente al mercato interno (27,3 migliaia di euro)".

Insomma tra le grandi imprese e quelle piccole passa la stessa differenza che tra la Germania e l'Italia. La differenza sostanziale non è la presenza dei sindacati (in Germania i lavoratori hanno schemi di partecipazione che fanno inorridire i nostri imprenditori) quanto lo stadio più avanzato dello sviluppo del capitalismo che ha superato da tempo gran parte della piccola imprenditoria ancora presente in Italia (e delle corporazioni di tradizione medievale), nella sua qualità dei prodotti e degli investimenti, nella sua organizzazione d'impresa, nella sua proiezione internazionale. Solo così si spiega come alla VW i lavoratori hanno gli orari più bassi d'Europa e forse del mondo, paghe tra le più alte (sicuramente più di quella dei loro colleghi della Fiat) eppure l'azienda sta diventando la prima a livello mondiale.

Lunedì 23 Gennaio 2011

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