di Alberto Burgio
Se ne va? Non se ne va? Berlusconi è talmente inaffidabile che non sarebbe ragionevole azzardare pronostici. Ma forse non è nemmeno così importante saperlo.
Ancora un paio di anni addietro, non avremmo immaginato che il suo personale destino politico potesse apparire irrilevante. Berlusconi aveva il monopolio della rappresentanza di un composito blocco sociale e della direzione del centrodestra. Oggi è tutt'al più un comprimario, sempre meno influente, sempre meno ascoltato all'interno del suo stesso partito. L'insieme degli interessi che aveva saputo tutelare ha trovato un garante ben più autorevole. Se Berlusconi ha deciso di ritirarsi, non è soltanto perché i sondaggi dicono che la sua immagine è in declino. Medita un passo indietro anche perché la sua «rivoluzione» ha trovato il legittimo erede.
Mario Monti è stato in questi undici mesi uno straordinario interprete della rivoluzione conservatrice che da un quarto di secolo viene trasformando l'Italia nel segno della sovranità del capitale e dell'impresa. Lo è stato principalmente in forza di quattro fattori. Due esterni: i diktat della troika e la dittatura dello spread, che hanno legittimato la macelleria sociale, facendola apparire una dolorosa necessità. Due interni: l'investitura del Quirinale (che si rinnova fragorosamente ogni giorno) e l'assenza di un'opposizione parlamentare in grado di impensierire il suo governo. Un quinto fattore - lo scarto di credibilità personale che lo separa dal predecessore - fa di Berlusconi, paradossalmente, il secondo padre del governo Monti, accanto al presidente della Repubblica, che lo ha fortissimamente voluto.
Sta di fatto che in meno di un anno il governo dei pretesi tecnici ha fatto molto di più di quanto lo stesso centrodestra non avesse realizzato in tre anni e mezzo (per limitarci a questa legislatura). L'ennesimo colpo di maglio alle pensioni (senza alcuna giustificazione contabile); la cancellazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; altre drastiche riduzioni dei redditi da lavoro; nuovi micidiali tagli dello Stato sociale. Il tutto salvaguardando caparbiamente profitti, rendite, alti redditi, interessi delle banche (e del Vaticano). Un capolavoro, dinanzi al quale il Cavaliere può recedere in tutta tranquillità, se non con orgoglio.
Oggi si guarda a Monti come al prossimo premier o al futuro presidente della Repubblica. Consideriamo entrambe queste ipotesi esiziali. Non soltanto per quanti - a cominciare dal mondo del lavoro e dalle giovani generazioni - pagano il prezzo più alto del malgoverno di questi decenni. Esiziale la persistenza di Monti sarebbe per la stessa democrazia italiana e per la Costituzione che la ispira.
Più volte il presidente del consiglio ha mostrato di considerare «quantità trascurabile» le istituzioni fondamentali della repubblica parlamentare. Ancora in questi giorni - tra un autoelogio e un esercizio di finta modestia - ha sostenuto che la strada del prossimo governo è già tracciata. Come dire che il Parlamento non serve a niente e che le elezioni sono un'inutile farsa. Anche se privo di tessera della P2, un personaggio del genere non tranquillizzerebbe alla guida del prossimo governo. Figuriamoci al Colle.
E diciamoci la verità. Checché ne pensi il diretto interessato, avere paracadutato l'attuale presidente del consiglio su palazzo Chigi non è un motivo di gratitudine nei confronti di Napolitano. Al quale ci permettiamo di ricordare che, certo, «tenere conto dell'esperienza Monti» nel prossimo futuro sarà inevitabile, ma non compete al presidente della Repubblica dire in che modo e traendone quali conseguenze.
Il Manifesto - 26.10.12