Michele Prospero
Con un tesoriere appena sorpreso con le mani nel sacco, la campagna di delegittimazione dei partiti assume toni sempre più parossistici. Mentre i media colpiscono il ventre molle di partiti indifendibili percepiti come custodi di cospicui tesoretti, è quasi unainsensata provocazione provare a riflettere con freddezza sul nesso accettabile tra politica e denaro pubblico. Per affrontare la controversa faccenda dei costi della politica è opportuno anzitutto chiedere: i partiti servono o no? Per molti osservatori la risposta è negativa. Il sogno dei grandi apparati industriali e mediatici è quello di scacciare i partiti per determinare non solo l’agenda politica, ma anche per designare comodamente il personale politico più gradito cui affidare in appalto la leadership.
Cosa è successo nella Seconda Repubblica? Un’azienda mediatica è diventata un partito-personale con un centro assoluto di comando proteso alla cura di interessi parziali. Gli altri media hanno provato gusto nel chiedere la tessera numero uno, nel raccomandare la costruzione di partiti liquidi sui quali esercitare più agevolmente un potere di direzione, consiglio, rimbrotto, scambio. Alla catastrofe italiana ha condotto proprio il perverso condominio per cui da un lato opera un’impresa che si è fatta partito per meglio proteggere i beni e dall’altro agiscono imprese concorrenti che sfidano ogni serio tentativo compiuto dai capi della sinistra per ritrovare una forte autonomia politica. Il trattamento riservato dai media “amici” verso Bersani è davvero esemplare. Cosa c’è dietro? Lo chiarisce bene la vicenda della riforma del mercato del lavoro, la gestione della precarietà, la sorte dell’articolo 18. La posizione dei media svela un conformismo di classe (si può ancora dire così?) illuminante. Tolto questo giornale e pochi altri fogli di minoranza, tutti gli altri quotidiani (da Repubblica al Corriere della Sera, dal Sole 24 ore alla Stampa), i settimanali (dall’Espresso a Panorama), i media pubblici e privati (dalle reti Mediaset a quelle Rai, da Sky a la7) hanno con forza sposato le ragioni dell’impresa e dato addosso ai sindacati. Cosa infastidisce? L’esistenza di soggetti politici che difendono valori e interessi collettivi in contrasto con quelli inseguiti dalle potenze economico-mediatiche dominanti. Nelle condizioni attuali (ma era così anche nell’età d’oro del partito di massa) anche un partito non omologato alle esigenze dei capitali non può realisticamente poggiare solo sull’autofinanziamento garantito dai militanti. Il contributo pubblico si rivela per tutti indispensabile. Non si possono nascondere però le ambiguità (accedono a pubbliche risorse ben 67 partiti e movimenti politici), le stravaganze (ci sono stanziamenti in favore di organizzazioni ormai sepolte o di forze senza alcuna rappresentanza), le opacità (anche chi promuove il referendum contro il finanziamento ottiene in cambio cospicue somme di denaro statale), le distorsioni (i partiti più anticasta si dedicano a investimenti immobiliari, a speculazioni in Tanzania). È agevole prendere spunto dalla generosa cronaca odierna per affondare colpi micidiali. Quello che deve risultare chiaro è però che gli abusi, le pratiche deteriori, gli scandali, affondano le loro radici non in una (ormai evanescente) realtà di partito che avrebbe sprigionato degli appetiti smisurati di dominio ma nella (costosa) mediatizzazione integrale della politica e nella crescente personalizzazione della leadership. Proprio i media che sollecitano i partiti ad assumere le vesti soffici della narrazione leaderistica sono quelli che poi li infilzano come i dissipatori di ogni trasparenza. In nome della elezione diretta del premier, i partiti sono diventati dei pallidi simulacri privi di una intensa vita associativa. Come anime perse, i partiti si agitano sprovvisti di una organizzazione ramificata nei territori e di una battaglia delle idee capace di selezionare i nuovi ceti politici. I partiti del leader hanno fondi per media, manifesti e sondaggi e però sono smarriti nella società, sono ombre nei territori dispersi dove ogni carica elettiva costruisce la propria inaccessibile microfisica del potere. Prima ancora di nuove leggi (sulla certificazione dei bilanci, sui controlli efficaci non solo di forma ma di sostanza, sulla trasparente funzione degli iscritti) occorre un grande e visibile mutamento del modo di essere dei soggetti politici. Serve un convinto investimento, in termini di cultura e di organizzazione, per la rinascita del partito. Se non si ricostruiscono vitali agenzie di partito ogni riforma di legge apparirà un cedimento opportunistico o un adattamento camaleontico. Un partito politico rimodellato è una aperta sfida lanciata contro il conformismo di questi brutti tempi. Il fallimento della Seconda Repubblica rivela che la ricomparsa di una politica organizzata è la prima necessità storica della democrazia italiana. Il denaro pubblico non è affatto un rubinetto a fondo perduto se i denari elargiti incoraggiano la ricomparsa di grandi serbatoi di cultura politica, agevolano momenti di organizzazione strutturata (per la selezione di classi dirigenti affidabili, per la costituzione di canali di partecipazione e sedi permanenti di confronto), sorreggono vicende di socializzazione (per recuperare radici, legami, codici per un apprendimento collettivo). Solo la cattiva coscienza può sostenere che tutte queste preziose funzioni democratiche non giustifichino un esplicito e non dissimulato (nelle vesti ingannevoli di rimborsi elettorali) finanziamento pubblico dei partiti. Accanto ai soldi dello Stato devono pervenire però contributi volontari degli eletti, sacrifici della militanza, introiti delle attività, delle feste, quote del tesseramento. Un partito vivo non si lascia sorprendere dai giochi pericolosi di un tesoriere.