di Elena Fiorentino
Grandi stipendi con pessimi risultati. Per i manager la crisi era già finita nel 2010 Nel pieno del crollo economico-finanziario, gli stipendi dei vertici delle principali aziende europee quotate in borsa hanno subito rialzi a due cifre: 20% in Svizzera, 22% in Germania...
Addirittura il 34% in Francia. Italia seconda nella classifica dei paperoni, dopo l'Inghilterra. Ma i salari sono fermi al 22esimo posto, appena davanti alla Grecia.
Per i patron delle grandi aziende europee, e per i loro stipendi, la crisi nel 2010 era già finita, con buona pace dello spettro della recessione che aleggiava sull’Europa e dell’allarme di Ocse e Fmi sulla disoccupazione.
Mentre in Italia Napolitano già evocava i “sacrifici necessari” e Confindustria battagliava con i sindacati sul “rigore necessario alla crescita” che diventerà un anno dopo il mantra del presidente Monti, gli amministratori delegati delle 367 principali società quotate in Borsa del Vecchio continente hanno guadagnato, in media, 3,928 milioni di euro ciascuno. Tutto compreso: salario fisso, bonus e premi di risultato, compensi in azioni e stock options, e benefici di varia natura. Senza calcolare gli accordi previdenziali complementari, impossibili da quantificare con precisione a causa della scarsa trasparenza dei resoconti societari sull’argomento.
Basta, dunque, con le rinunce ai bonus e gli stipendi simbolicamente ridotti all’osso: ad appena due anni dall’inizio della crisi, i grandi capi delle aziende europee sono tornati a guadagnare quanto prima, se non di più, nonostante l’economia fosse sull’orlo di un nuovo baratro. Nel 2010, mentre il Pil dell’area Ocse (i 34 Paesi occidentali ad economia più sviluppata) cresceva del 2,8%, e quello dell’eurozona appena dell’1,7%, i loro compensi si involavano del 20% in Svizzera, del 22% in Germania e addirittura del 34% in Francia. Dove, nello stesso anno, i lavoratori a salario minimo garantito si sono dovuti accontentare di un aumento per adeguamento all’inflazione dell’1,7%.
La palma dei più pagati se la sono però assicurata i chief executive officer britannici, che secondo i calcoli del network Ecgs (che raggruppa una serie di società di consulenza e ricerca indipendenti, tra cui l’italiana Frontis governance) hanno totalizzato una retribuzione media pro-capite di 6,08 milioni di euro, beneficiando di un cambio favorevole alla sterlina ma soprattutto di un’impennata di bonus e stock options, le cosiddette componenti variabili. Congelate durante la crisi per placare le ire di azionisti e risparmiatori, nonché dei governi costretti a ricapitalizzare banche e assicurazioni sull’orlo del fallimento, nel 2010 sono tornate a fare la parte del leone negli stipendi dei top manager d’Oltremanica, fruttando a ciascuno oltre 5 milioni di euro.
Appena sotto gli inglesi, sul secondo gradino del podio, si sono accomodati gli amministratori delegati nostrani, con un compenso medio da 5,48 milioni. Composto da 2,11 milioni di euro di retribuzione variabile tra denaro e azioni e 1,8 milioni di benefit vari (vantaggi in natura, gettoni di presenza e altre forme di compenso legate a elementi straordinari, come il completamento di operazioni finanziarie), da aggiungere a un principesco stipendio fisso: quasi 1 milione e 700 mila euro l’anno, il più elevato d’Europa. Eppure, nelle classifiche Ocse del 2010 sul livello dei salari l’Italia era ben più in giù del primo posto: ventiduesima su 31, appena davanti alla Grecia, con una retribuzione media netta per un single senza figli a carico di 25.155 dollari, quasi 5.000 in meno della media della zona euro.
L’exploit dei patron italici è però ancora più stupefacente se si esamina un’altra classifica, quella delle retribuzioni individuali del 2010. Qui due nostri concittadini, nomi più che noti dell’alta finanza tricolore, hanno infatti conquistato prima e seconda piazza, infliggendo agli inseguitori un distacco di tutto rispetto. Medaglia d’oro per Alessandro Profumo, che grazie alla buonuscita da 38 milioni versatagli da Unicredit ha visto la sua retribuzione sfondare il tetto dei 40 milioni di euro. Eppure, per l’istituto di piazza Cordusio il 2010 non era stato un buon anno: i ricavi erano calati, soprattutto nel trading, gli utili avevano fatto uno scivolone verso il basso di oltre il 22% e la filiale di risparmio gestito Pioneer, esperta in derivati, era stata messa in vendita. Gli azionisti si erano quindi dovuti accontentare di un dividendo da 3 centesimi, con la promessa, formulata dal successore di Profumo, Federico Ghizzoni, di un 2011 più fruttuoso. Promessa non mantenuta, dato che l’anno scorso il gruppo è stato travolto dalla crisi del debito nella zona euro, ha azzerato i dividendi e annunciato il taglio di oltre 5.000 dipendenti.
Il secondo posto se l’è aggiudicato invece Sergio Marchionne, numero uno del gruppo Fiat, con 22,97 milioni di euro di retribuzione annuale 2010. Stavolta, a pesare non sono bonus o buonuscita, ma il salario fisso, più che generoso: 3,473 milioni di euro, oltre 98 volte lo stipendio annuale medio di uno degli oltre 135mila dipendenti del gruppo torinese. Incassato senza battere ciglio, mentre a Mirafiori si susseguivano i periodi di cassa integrazione: 420 operai della costruzione stampi e 900 delle presse tra marzo e aprile, 2.500 addetti delle linee di Idea, Musa e Punto tra maggio e giugno, di nuovo 800 delle presse a ottobre, e così via.
La top ten torna poi a parlare italiano qualche passo più in giù, al 5° posto, dove siede il bresciano Vittorio Colao, Ceo della britannica Vodafone, con un compenso da 18,126 milioni di euro. All’ottavo posto, invece, un altro banchiere, stavolta spagnolo: Alfredo Saenz Abad, del Banco Santander, che nell’esercizio 2010 ha intascato 12,61 milioni di euro, con un salario fisso che batte tutti gli altri con oltre 3,7 milioni. Cifra considerevole, che lo avrà certo aiutato a consolarsi per i guai con la giustizia che lo hanno travolto a inizio 2011: accusato di aver consentito la presentazione di una denuncia fasulla contro dei clienti, ai tempi in cui era il numero uno di Banesto, è stato condannato dal tribunale supremo di Madrid a tre mesi con la condizionale, più un’ammenda e l’interdizione dalla professione. Pena successivamente ‘indultata’ e convertita in sanzione pecuniaria dal governo Zapatero, tra l’indignazione generale di stampa e opinione pubblica iberica.
Ma come arrivano i top manager a mettere insieme compensi tanto elevati anche in periodo di crisi? Tutta colpa, spiegano gli esperti di Ecgs, dalla mancanza di controllo degli azionisti sui criteri con cui vengono calcolate le retribuzioni. Nella maggior parte dei Paesi europei, infatti, le aziende quotate non sono obbligate a farli ratificare dall’assemblea generale, ma sono solo tenuti a renderli pubblici nel proprio rapporto annuale. Se così non fosse, la situazione sarebbe forse diversa: quando è stato permesso loro di votare, infatti, gli azionisti si sono generalmente espressi contro i sistemi di calcolo dei compensi proposti dai cda, soprattutto quando si trattava di buonuscite per consiglieri a fine mandato e piani di attribuzione gratuita di azioni ai primi dirigenti.