di Gavino Maciocco
Nella disattenzione generale, in Italia si stanno minando le fondamenta del servizio sanitario nazionale, mentre in Inghilterra la riforma che cancella 60 anni di storia del National Health Service (NHS) è ormai in dirittura d'arrivo e...
entro poche settimane sarà legge, nonostante gli accorati tentativi delle categorie professionali di convincere il governo a un ripensamento (vedi manifesto: "Caro Mr. Cameron, tu stai facendo un grande errore con il NHS, per favore, per favore ascoltaci").
"Le proposte del governo – aveva scritto Lancet – sono ideologiche, senza uno straccio di prova di efficacia. Esse rappresentano un decisivo passo verso una privatizzazione che rischia di minare i fondamentali obiettivi di equità e efficienza del NHS. Piuttosto che "Liberare il NHS" queste proposte sembrano un esercizio per "liberare" le risorse di 100 miliardi di sterline del NHS nella direzione delle imprese commerciali".
La crisi economica è stato il pretesto per scardinare uno dei principali capisaldi del welfare inglese, sostiene M. McKee sul British Medical Journal: "La crisi economica ha offerto al governo l'opportunità che capita una sola volta nella vita. Come Naomi Klein ha descritto in molte differenti situazioni, quelli che si oppongono al welfare state non sprecano mai una buona crisi. Il deficit deve essere ridotto e così, uno a uno, i benefici vengono rimossi e i gruppi vengono messi l'uno contro l'altro e alla fine l'interesse della classe media per il welfare svanisce".
L'esperienza della Gran Bretagna può aiutarci a capire quanto sta accadendo in Italia? Il quadro è estremamente preoccupante. La crisi economico-finanziaria sta imponendo al nostro welfare revisioni e ridimensionamenti che rischiano di andare oltre il pur necessario contenimento delle inefficienze e il doveroso contributo al risanamento della finanza pubblica.
Non c'è in Parlamento, come in Gran Bretagna, una legge che propone di smantellare il servizio sanitario nazionale, ma troppi indizi ci dicono che il nostro sistema sanitario universalistico è in serio pericolo.
I tagli. Le recenti manovre hanno previsto tagli ai fondi per il Servizio Sanitario Nazionale che raggiungeranno nel 2014 un valore pari a circa mezzo punto di Pil: poco meno di 8 miliardi di euro. Ai tagli nel settore sanitario, si aggiunge il quasi totale azzeramento dei fondi statali per gli interventi sociali che nel 2013 saranno pari a circa un decimo di quelli stanziati nel 2008.
L'aumento della compartecipazione alla spesa. L'introduzione di un superticket che rende più conveniente rivolgersi alla sanità privata piuttosto che alle strutture pubbliche (un provvedimento assurdo e autolesionista), la previsione di un ulteriore forte aumento dei ticket (2 miliardi dal 2014, un onere per gli assistiti quasi doppio rispetto all'attuale).
La crescita della spesa privata. 30,6 miliardi di euro la spesa di tasca propria dei cittadini per la salute (in particolare per farmaci, prestazioni specialistiche, assistenza agli anziani non-autosufficienti): +8% nel periodo di crisi 2007-2010.
Insoddisfazione per i servizi. Peggiora la qualità della sanità, soprattutto nelle Regioni dove i tagli sono maggiori. Secondo il Censis, per il 31,7% degli italiani il Servizio sanitario della propria Regione è peggiorato negli ultimi due anni (lo pensava il 21,7% nel 2009).
L'espansione delle forme integrative di assistenza, che si avvantaggiano delle agevolazioni fiscali.
In questo contesto di grande difficoltà e di crescenti sacrifici per i gruppi più vulnerabili della popolazione, è maturata l'idea di differenziare i livelli di compartecipazione alla spesa in relazione alla situazione economica degli assistiti, fino a ipotizzare l'abolizione delle esenzioni per patologia alle classi medio-alte. La logica è (a prima vista) attraente e (apparentemente) equa: maggiore contributo richiesto a chi ha maggiore disponibilità. Una regola, quella della "progressività", sacrosanta nei meccanismi della fiscalità generale, che diventa invece estremamente divisiva quando applicata nel momento bisogno, quando uno dopo aver pagato regolarmente le tasse si aspetta di ricevere in cambio i servizi senza limitazioni discriminatorie.
Secondo il citato M. McKee tra i vari modi per demolire un sistema universalistico c'è quello di creare un sistema in cui i ricchi ricevono pochi benefici in cambio dei tributi che pagano.
Non è forse un caso che su questo tema intervenga Umberto Veronesi, già ministro della sanità, con una proposta che chiude il cerchio, portando alle estreme conseguenze la logica di cui sopra: "Chi supera una certa soglia di reddito dovrebbe uscire dalla copertura del servizio sanitario nazionale e rivolgersi alle assicurazioni private. Si formerebbe una categoria a parte, che stimolerebbe il mercato delle assicurazioni.".
Sorprende la leggerezza con cui l'ex ministro ha lanciato la proposta, che sancirebbe l'abolizione del servizio sanitario nazionale e darebbe vita a un modello sudamericano di sanità, con due sotto-sistemi sanitari: uno per i ricchi erogato dalle assicurazioni, l'altro, di infima qualità, per i poveri.
Sorprende anche il generale silenzio che ha accompagnato la proposta, pur pubblicata in evidenza sul Corriere della Sera.