di Vladimiro Giacchè
L'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori prevede l'illegittimità del licenziamento per motivi diversi dalla giusta causa. In caso di licenziamento illegittimo l'articolo 18 impone all'azienda sia il reintegro del lavoratore che una sanzione pecuniaria, rendendo di fatto nullo il licenziamento stesso.
Viene disposto il reintegro del lavoratore e non la riassunzione, perché altrimenti il dipendente perderebbe l'anzianità di servizio e i diritti acquisiti con il precedente contratto. Non sembra una norma così atroce. Unico limite: non si applica alle imprese sino a 15 dipendenti. Quando Berlusconi provò a eliminare l'art. 18, la CGIL di Cofferati portò in piazza 3 milioni di persone. Oggi, siccome a volerlo eliminare è il governo dei "tecnici", le voci che si levano a difesa di quell'articolo sono molte meno di allora. Qualcuno ha addirittura ha il coraggio di definire questo attacco come "riformismo".
No. Non soltanto questa è una politica schiettamente di destra, ma è anche una politica sbagliata e controproducente. Non soltanto dal punto di vista della difesa dei diritti dei lavoratori, ma anche da quello – non meno importante – del futuro stesso della nostra economia. Se infatti le modifiche di cui si parla riusciranno a passare, lo scenario più probabile è il seguente: massicci licenziamenti (con misero indennizzo) per motivi economici e un ulteriore crollo della domanda interna dopo quello già provocato dalle misure di austerità varate da Berlusconi e poi da Monti. Per parlare col linguaggio dei "tecnici": enorme "flessibilità in uscita", con la cassa integrazione che si trasforma direttamente in licenziamento per decine e forse centinaia di migliaia di lavoratori, senza che questo sia minimamente una garanzia di maggiore "flessibilità in entrata" (lo stesso Olivier Blanchard, del FMI, anni fa ha ammesso che non esiste alcun nesso automatico tra flessibilità e deregulation del mercato del lavoro da un lato e crescita dell'occupazione dall'altro).
Non soltanto, quindi, un ritorno indietro di 50 anni (lo Statuto dei lavoratori risale al 1966). Non soltanto una trasformazione di ogni lavoro in lavoro precario nel senso stretto del termine: ossia insicuro, sempre sottoposto al ricatto del datore di lavoro e sempre sotto minaccia di essere interrotto con un atto d'arbitro, sia per "motivi economici" che per motivi discriminatori. Ma un ulteriore passo avanti verso la catastrofe economica.
Siccome ci dicono che i "professori di governo" sono persone còlte e amanti delle buone letture, ci permettiamo di invitarli a leggere con noi poche righe tratte dall'ultimo rapporto del Centro Europa Ricerche, del dicembre 2011:
"Deve riconoscersi che il contenimento delle dinamiche salariali – e più in generale una riforma tesa ad aumentare la flessibilità del mercato del lavoro – non è fattore sufficiente a ripristinare la competitività esterna di un grande paese. L'esperienza italiana ne è la chiara dimostrazione. Dalla seconda metà degli anni Novanta, il grado di flessibilità del mercato del lavoro è sensibilmente aumentato, determinando, fra l'altro, una segmentazione del mercato, come è avvenuto in Germania con il settore a basso salario. Già dall'inizio degli anni Novanta, l'adozione di nuove regole salariali ha inoltre attenuato la crescita salariale, in particolare depotenziando i meccanismi di indicizzazione dell'inflazione. Da ciò non è però disceso alcun guadagno di produttività... Se si riteneva di poter restituire competitività al sistema produttivo, allora ci troviamo di fronte a un evidente insuccesso".
Soltanto una classe dirigente irresponsabile, ignorante e arrogante può permettersi di andare per la sua strada a dispetto di questa semplice lezione che viene dai fatti. Bisogna mandarla a casa prima che faccia altri danni.
Domenica 25 Marzo 2012