di Bianca Bracci Torsi
Meno di due settimane fa, alla riunione del Comitato Anpi di Roma, Sasà Bentivegna era presente e si è alzato a parlare, appoggiato al bastone ma ben dritto, intervenendo sulle questioni all’ordine del giorno senza bisogno del microfono.
Ci siamo salutati con un “ci vediamo l’11”, giorno fissato per la riunione successiva: nonostante l’età e le condizioni di salute, non ho pensato alla morte, me lo impedivano quel suo rifiuto di parlare seduto, la voce chiara e forte, la consueta polemica a proposito della resistenza popolare gappista di Roma, che lui riteneva sottovalutata dagli storici, della mazziniana repubblica romana e della sua Costituzione che riteneva non abbastanza ricordata e ripresa da tutti noi. Invece la morte è arrivata, improvvisa, forse annunciata ma comunque ingiusta a chiudere una lunga e appassionata vita di militante antifascista e comunista e di medico. La vita di Sasà comincia in una famiglia antifascista, è segnata dalle leggi razziali che cacciano dalla scuola alcuni suoi compagni di classe e poi dall’incontro con il PCdI clandestino. Conosce l’orrore della guerra da studente in medicina di servizio al policlinico di Roma, colpito dal bombardamento del 19 luglio 1943, inizia a combattere e l’8 settembre dello stesso anno a Porta S. Paolo, con i militari e il popolo, che tentano una disperata difesa della città tradita e abbandonata dal re, da Badoglio e dagli alti gradi dell’esercito. Sarà poi per tutta la Resistenza romana, gappista al comando del “gruppo Pisacane” del Gap centrale. L’azione più nota è l’attacco militare di Via Rasella ad un reparto della polizia nazista, il 23 marzo del 1944. Roma era già stata definita dal Comando nazista una città nella quale una metà nascondeva l’altra di partigiani militanti e il successo di via Rasella fece imbestialire Hitler il quale ordinò la distruzione dei fabbricati della zona e una rappresaglia di 100 romani per ogni caduto tedesco (erano 33). Il comandante di piazza, che viveva a Roma e ne conosceva la situazione “riequilibrò” la richiesta del capo, non per spirito umanitario ma per paura di una insurrezione che avrebbe coinvolto Roma e l’immediata retrovia del fronte: il quartiere rimase intatto e la rappresaglia fu di 10 italiani per ogni tedesco, qualche errore di calcolo li portò a 35 ai quali si aggiunse una contadina che raccoglieva erbe di campo sopra ala cava di pozzolana dell’Ardeatina dove 335 ebrei, renitenti alla leva, partigiani e antifascisti, furono massacrati il giorno dopo. Le speculazioni successive, uno dei tanti tentativi di infangare i combattenti per la libertà accusando i gappisti di non aver risposto ad una proposta nazista di presentarsi evitando così il massacro, sono soltanto falsi. Il manifesto affisso a Roma due giorni dopo che accusava “ i comunisti badogliani” dell’azione militare di Via Rasella e dava l’annuncio della rappresaglia, si chiudeva con le parole, “l’ordine è già stato eseguito”. Successivamente al processo di Norimberga, interrogati su questo specifico episodio, i comandanti nazisti dichiararono di non aver pensato sul momento, a chiedere la consegna dei “colpevoli”. In realtà, questa ipotesi non fu mai per paura di un intervento della resistenza romana. Su questo Sasà Bentivegna ha dovuto impegnare molto del suo tempo e dei suoi libri, prima di arrivare a convincere tutti i tribunali di ogni livello che la verità era quella dei manifesti e delle confessioni naziste e che Via Rasella non era stato un “attentato” ma una azione di guerra, una delle tante sollecitate dal Comando alleato, da tutte le trasmissioni della proibitissima e ascoltatissima Radio Londra. La vita e l’impegno politico di Sasà non finiscono a Via Rasella ma comprendono un periodo di guerriglia nei Castelli Romani, la liberazione di Roma e un proseguimento della sua lotta contro tutti i fascismi a fianco dei partigiani jugoslavi di Tito. Il resto è la militanza nel Pci e l’impegno di medico, in gran parte rivolto all’infortunistica sul lavoro e l’impegno nell’Anpi del quale è sempre stato un orgoglioso sostenitore. Per me, per molti di noi continua ad esserlo.