di Claudio Bazzocchi
Da lungo tempo ormai cerchiamo di mettere in guardia dall’azzardo della retorica antipartitica che è stata cavalcata imprudentemente anche a sinistra in Italia a partire da Occhetto, passando per Veltroni fino a Vendola. L’antipolitica travolge prima o poi chi crede di poterla cavalcare, poiché si rende immancabilmente ingovernabile lasciando tutti in balia di un incontrollabile risentimento popolare.
Tale risentimento arriva in questi giorni a mettere in discussione la presenza stessa dei partiti nella democrazia italiana chiedendo la fine di qualsiasi finanziamento pubblico.
Non vogliamo portare argomenti a favore del finanziamento pubblico. Altri commentatori lo hanno già fatto in modo autorevole (si veda Michele Prospero su l’Unità del 12 aprile).
Ci interessa qui rilevare che idea di partito politico abbiano coloro che chiedono la fine di qualsiasi forma di finanziamento pubblico. Ebbene, il modello è sostanzialmente quello del partito di opinione, del comitato elettorale o del soggetto non strutturato che mobilita i ceti medi istruiti su singole issues, per esempio dalla rivolta antitasse alla sicurezza per la destra, dai diritti civili alla green economy per la sinistra.
I partiti e qualsiasi altro corpo intermedio tra cittadinanza e governo sono visti come elementi che distorcono l’autentica volontà del singolo elettore. Siamo al compimento della democrazia come mercato politico e repubblica dei consumatori, atomi isolati senza identità collettiva e interessi di parte. Si vuole insomma lo smantellamento delle organizzazioni di massa per neutralizzare il conflitto sociale e l’espressione degli interessi deboli della società e giungere così al frazionamento particolaristico dell'interesse pubblico.
Il partito smette di essere così un soggetto di massa a forte insediamento sociale in grado di rappresentare interessi, governare gli egoismi della società grazie a una solida cultura politica e fornire identità sociale a milioni di persone sempre più sole e abbandonate nella società liquida.
In Italia si vuole cancellare definitivamente l’"anomalia" del partito soggetto politico di massa che pensa la democrazia come progressiva compenetrazione tra Stato e società civile – così come stabilito nella nostra Costituzione e nei suoi fondamenti politico-culturali – affinché si dispieghi un’idea di democrazia puramente liberale che veda Stato e società nettamente distinti.
Questa partita iniziò in Italia negli anni Settanta con l’attacco di ambienti laico-socialisti al sistema dei partiti (ricordiamo per esempio l’elaborazione di Mondoperaio nella seconda metà degli anni Settanta) e ha avuto il suo primo tempo col referendum del 1993 per l’introduzione del maggioritario. Siamo ora al secondo tempo dopo vent’anni, da chiudere in fretta con il golden goal: l’abolizione del finanziamento pubblico.
Nella cosiddetta seconda repubblica abbiamo visto che partiti liquidi e personali hanno offerto performance di governo molto scadenti e che il direttismo plebiscitario non è stato in grado di rappresentare e portare a sintesi in modo adeguato gli interessi presenti nella società. Inoltre, abbiamo assistito alla trasformazione della politica in una sorta di scontro tra fazioni caratterizzate da un estremismo moralistico senza alcuna visione del Paese nel suo complesso. Insomma, nel momento in cui i partiti perdono il loro carattere popolare e di massa diventano paradossalmente piùpartisan, nelle mani di pochi militanti sempre più puri e sempre più permeati da un forte spirito di intransigenza morale. Le organizzazioni di massa lasciano il posto al moralismo da una parte e ad agorà virtuali dall’altra, mentre il potere si fa sempre più opaco e frantumato fra i vari interessi forti, quando non vi sono più organizzazioni popolari e radicate in grado di produrre cultura politica, visioni del mondo, mediazione trasparente degli interessi, in virtù di un sano realismo politico scevro da ogni moralismo estremista e da ogni illusione di trasparenza civica.
Oggi, frantumate le identità tradizionali assieme ai grandi insediamenti produttivi, in un contesto sociale sempre più complesso e difficile da decifrare sia dal punto di vista dei valori e degli orientamenti culturali sia da quello del tessuto economico, c’è bisogno più che mai di soggetti collettivi e di personale politico che possa organizzare il radicamento e la coesione sociale e leggere territori sempre più difficili da interpretare. Si tratta di realtà più complesse di quelle tradizionali del mondo fordista in cui era sufficiente leggere la grande industria per interpretare una città e un ambito territoriale. A quel tempo, migliaia di funzionari di partito e del sindacato svolsero la loro opera di antenne sociali e di organizzatori del conflitto e allo stesso tempo della coesione sociale. Ai nostri giorni, nel mondo più complesso della postmodernità, che oltretutto consegna milioni di persone alla solitudine, i partiti e i sindacati hanno sempre meno risorse umane da impiegare sul territorio. A fronte di questo paradosso, si chiede anche l’abolizione del finanziamento pubblico sull’onda dell’indignazione per gli scandali che hanno visto coinvolti i tesorieri di alcuni partiti, curiosamente indagati nello stesso lasso di tempo.
Abbiamo allora bisogno di partiti più forti e dotati di più risorse. Certamente dovranno esprimere più cultura politica e dovranno essere in grado di mettere in forma gli egoismi e il privatismo della società civile. Insomma, a sinistra i partiti dovranno di nuovo radicarsi nel mondo del lavoro ed esprimere di nuovo grande pensiero, visione del mondo, ideologia.
Vogliamo concludere con l’ammonimento di Enrico Melchionda che già sette anni fa ci metteva in guardia dall’adottare il modello direttista americano, imperniato sulle primarie e sulla dissoluzione dei partiti:
«L'Europa si ritrova oggi ad affrontare le sfide che scaturiscono dal declino della democrazia dei partiti. Forse è già troppo tardi. Stiamo assistendo già da tempo a processi di smobilitazione dell'elettorato di massa, al rafforzamento e alla presidenzializzazione degli esecutivi, allo sviluppo della personalizzazione e delle elezioni candidate-centered, alla pressione politica degli interessi organizzati e alle influenze più o meno ovattate dei media. Non si sono fatte attendere le esplosioni populiste e i sentimenti antipartitici, che segnalano le inquietudini crescenti verso il funzionamento della democrazia tradizionale. Così dalle ondate di protesta e di disaffezione esce ogni volta rinvigorita, negli atteggiamenti e nelle aspettative politiche dei cittadini, l'ideologia direttista. Perciò si fa forte la tentazione di cavalcare quest'ideologia da parte di attori politici che non riescono più a credere in se stessi, nella propria funzione e nella propria identità. E, al solito, la tentazione tocca soprattutto le sinistre (E. Melchionda, Alle origini delle primarie. Democrazia e direttismo nell’America progressista, Ediesse, Roma 2005, pp. 82-83)».